(dal capitolo XIII: “La Scuola di Francoforte”)
Herbert Marcuse (1898-1979)
Lavora alla Scuola di Francoforte dal 1933 al 1940 e rappresenta l’esponente che ha dedicato più interesse alle analisi filosofico-politiche, dagli anni della formazione a Berlino (studente universitario iscritto al Partito Socialdemocratico e poi attratto dalle posizioni radicali della Lega di Spartaco della Luxemburg e di Liebknecht) sino alle ultime fasi della sua vita. In lui ben si incarna la figura di un “Ulisside della Ragione” (Giuseppe Acone, 1942-viv.). Nei primi anni del 1920 a Friburgo conosce Husserl e Heidegger alla cui scuola matura il suo non conformismo culturale e si costruisce il metodo di rifiutare i fatti ciechi della percezione comune, per scoprirne le strutture razionali interne, anche attraverso uno strappo emotivo e mentale e, se occorre, una rottura dal dato e dal fatto. Laureatosi nel 1922 ottiene nel 1932 la libera docenza all’università, contattando Horkheimer, direttore della Scuola e facendone parte per affinità di posizioni politiche e culturali. Intanto i suoi studi si concentrano sull’asse Hegel-Marx, e lo portano ad analizzare la società nei termini della dialettica materialistica, per una critica borghese alla civiltà borghese, in vista di un mutamento rivoluzionario. Nel 1933 si consuma non solo il distacco, ma anche il rigetto di Marcuse nei riguardi di Heidegger. Sono tipiche le tesi che egli sostiene nel 1934 in un saggio dal titolo “La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato”, in cui afferma che lo sbocco autoritario della crisi dello stato liberale in Italia prima e in Germania poi, non costituisce una contraddizione con l’assetto politico-sociale precedente, perché l’essenza dei regimi liberali non risiede nei principi di libertà ma in un ordine sociale basato sui diritti dell’impresa e sulla proprietà privata. I regimi dittatoriali non hanno leso gli interessi capitalistici, anzi li hanno difesi e sostenuti meglio dei regimi parlamentari, per cui tra stato liberale e stato autoritario non si è creata una grande differenza.
In questo periodo matura in Marcuse l’interesse per la costruzione di un “pensiero critico-negativo” nei confronti della realtà politico-sociale, che non si limiti a descrivere ciò che appare; tema su cui ritornerà spesso, insistendo sulla necessità di non accettare acriticamente i “fatti” che una società ci mostra. In un saggio del 1937 “Teoria critica e filosofica” cerca di trovare un accordo tra l’idealismo hegeliano e il materialismo marxiano, dicendo che il primo fonda la realtà sui criteri della ragione (il pensiero governa la realtà), il secondo che la realtà si concretizza nel complesso delle relazioni economico-sociali (l’economia governa il pensiero). Da qui la “teoria critica” che, unendo questi principi che sono alla base dei due sistemi filosofici, risulta a un tempo anti-positivistica e realistica, perché non si limita a descrivere le cose, la realtà, ma il suo intento principale è quello di trasformarle.
Qualche decennio più tardi, nel testo del 1964 “L’uomo a una dimensione”, egli dirà che la lotta per il mutamento sociale deve prendere una strada diversa da quella indicata da Marx, perché le tendenze totalitarie della società “unidimensionale” rendono inefficace le vie e i mezzi tradizionali di protesta. La teorie critica della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente e il futuro; non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa. In questo modo essa vuole mantenersi fedele a coloro che, senza speranza, (cioè gli eterni oppositori del sistema, i reietti, gli sfruttati, i disoccupati, ecc.) hanno dato e danno la vita per il Grande Rifiuto (inteso come), la protesta contro la repressione superflua, la lotta per la forma definitiva di libertà: vivere senza angoscia.
Negli anni in cui si sviluppa il dibattito sul totalitarismo Marcuse, che dal 1940 si è fatto cittadino americano residente, scrive un saggio pubblicato nel 1941 “Alcune implicazioni sociali della tecnologia”, in cui si anticipano alcuni temi del celebre testo già citato “L’uomo a una dimensione” (in questo stesso anno pubblica “Ragione e Rivoluzione”, in cui analizza il pensiero di Hegel). Le sue tesi si incentrano sul problema che con la crescita impetuosa della società industriale, il “razionalismo individualistico”, l’idea che l’individuo autodetermina il suo destino individuale e sociale, è stata travolta dai processi di concentrazione industriale, dall’affermarsi, all’interno dello stato, di una razionalità burocratica del tutto “impersonale”. La gente, efficacemente manipolata ed organizzata, è libera: ignoranza, impotenza ed eteronomia introiettata costituiscono il prezzo della sua libertà. In questa nuova dimensione gli individui sono dominati da criteri a loro esterni e perciò sono “eterodiretti” dal nuovo ordine sociale imposto dal meccanismo politico-economico, che richiede che tutto sia standardizzato: ci impone cosa comprare, quale film vedere, come divertirci, cosa pensare. Tutto sembra così normale, ragionevole, logico e perfetto che ribellarsi è assurdo e fuori luogo. La razionalità, ormai, si è identificata con le strutture organizzate, con le macchine, il pensiero è diventato “strumentale”: l’“homo sapiens” si è trasformato in “homo oeconomicus” (Smith) perché completamente subordinato ai criteri standard di efficienza. I prezzi non sono più liberi, l’interesse al profitto viene subordinato al piano generale; insomma tutta l’economia è sottoposta al controllo politico. È questo il “Capitalismo di Stato” che si è affermato negli Stati Uniti e nei regimi dittatoriali, che ha portato ad una concentrazione monopolistica delle imprese, ha legato le classi dirigenti al “menagement” industriale, il cui unico fine è quello di fare i propri interessi, imponendo alla società falsi bisogni e gusti, consensi e modi di vivere indotti, quali il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare, in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che gli altri amano e odiano. In tale situazione anche i sindacati operai si sono burocratizzati e, perdendo la loro originaria fisionomia e funzione, sono diventati strutture “ligie al sistema”, assumendo anch’esse forme autoritarie. La società che ne risulta non possiede più spazi per manifestare il dissenso, perché la democrazia è soffocata: i modelli più eloquenti sono gli USA e l’URSS, ove trionfa in tutto il suo splendore la “razionalità strumentale” (tema ampiamente trattato in “L’uomo a una dimensione”). Il modello alternativo a questa società, scrive Marcuse, è una società senza guerra, senza sfruttamento, senza oppressione, senza povertà e senza sprechi. La società industriale avanzata possiede attualmente le risorse tecniche, scientifiche e naturali che sono necessarie per soddisfare e tradurre in realtà tali aspirazioni. Ciò che impedisce una siffatta liberazione sono semplicemente il sistema esistente e gli interessi che operano senza sosta in difesa di esso, impiegando a tale scopo mezzi sempre più potenti.
Nel dopoguerra egli studia il marxismo sovietico, che ben ritrae nelle opere “Critica della società repressiva”e “Marxismo sovietico” (1958). In quest’ultima è detto, tra l’altro, che in URSS la dimensione romantica dell’individuo, specie nelle relazioni erotiche, che equivalgono a fenomeni più o meno improduttivi e socialmente inutili, è resa proficuamente conforme a un sistema di lavori politicizzanti e socialmente utili; lo stesso linguaggio ufficiale ha assunto un carattere di “rito” e di “magia” nel senso che la popolazione deve agire, sentire, pensare come se la ragione e la giustizia, proclamate dall’ideologia, fossero realtà… Il declino del pensiero indipendente accresce in misura enorme il potere delle parole: quel loro potere magico, la cui distruzione aveva un tempo segnato l’inizio della vera civiltà. Queste considerazioni lo portano a concludere che il realismo sovietico… si conforma ai modelli schematici di uno stato repressivo.
Il tema della repressione erotica qui accennato, è oggetto di analisi nel testo Eros e civiltà che Marcuse ha scritto qualche anno prima, nel 1955 e che può essere definito “il libro dei misfatti del Super-Io e della ragione come dominio e repressione”. Esso rappresenta un tentativo di sintesi originale fra Marx e Freud, alla cui base sta la convinzione (mutuata da Freud) che la civiltà ha potuto svilupparsi in virtù della rimozione e repressione degli istinti, del loro incanalamente regolato e dal disciplinamento delle passioni. Eppure – egli scrive – l’intero progresso della civiltà è stato reso possibile soltanto dalla trasformazione e dall’utilizzazione dell’istinto di morte o dei suoi derivati. La deviazione della distruttività originale dell’Io verso il mondo esterno… garantisce infine una morale civilizzata… Con l’istituirsi del principio della realtà, l’essere umano, che sotto il principio del piacere, era stato poco più di un’accozzaglia di tendenze animali, è diventato un Io organizzato. Ora lotta per ciò che è utile, per ciò che può ottenere senza causare danno a se stesso e al proprio ambiente vitale. Dal contrasto tra i due principi, che ha impedito all’individuo la libera soddisfazione delle sue pulsioni, limitandone la libertà, la società è riuscita ad organizzarsi ed a mantenere l’ordine e la produttività. La prepotenza della produttività del lavoro ci ha introdotti nell’ “era dell’angoscia”, dove tutti vivono in uno stato di anestesia generale che rende l’individuo felice.
Per Marcuse la civiltà occidentale è stata completamente asservita al principio della prestazione e dell’efficienza, il cui dominio ha regolato la stratificazione sociale in base alle prestazioni economiche dei suoi membri. In tal modo l’individuo è stato costretto ad impiegare tutte le energie psico-fisiche per scopi lavorativi e produttivi, reprimendo così le sue richieste umane di felicità e di piacere. Il che, indebolendo l’Eros, ha comportato una “de-sessualizzazione” e “dis-erotizzazione” del corpo umano, che ha condotto ad una “tirannide genitale”, ossia ad una riduzione della sessualità a puro fatto genitale e procreativo. Per cui il vero fine del mondo si è ridotto unicamente al lavoro e alla fatica, che perseguitano e reprimono sempre più l’uomo, costretto a conformare la sua attività erotica alla sua attività nella società: la razionalizzazione e la meccanizzazione del lavoro tendono a ridurre il quantitativo di energia istintuale incanalato in lavoro faticoso (lavoro alienato). Da qui la necessità di trasformare l’organizzazione in contro-organizzazione. Oggi la lotta per la vita, la lotta per l’Eros, è la lotta politica per eccellenza in quanto la liberazione dell’Eros potrebbe creare nuovi e duraturi rapporti di lavoro. A sostegno di ciò egli sottolinea che nella nostra civiltà matura esiste un “surplus di repressione”, che definisce “repressione aggiuntiva o addizionale”, non più necessaria per la convivenza.
Occorre riformare la morale in senso estetico e solo l’Arte, che esprime da sempre il desiderio di libertà e di creatività non alienata, è forse il più visibile ritorno del represso, non soltanto sul piano individuale ma anche su quello storico e della specie… Sotto il dominio del principio di prestazione, l’arte oppone alla repressione istituzionalizzata l’immagine dell’uomo come soggetto libero… Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. Così mentre Prometeo (definito da Marx “il più grande santo e martire del calendario filosofico”) è colui che pone le fondamenta dell’evoluzione umana, l’eroe civilizzatore della fatica, della produttività e del progresso per mezzo della repressione, Orfeo è l’archetipo del poeta come liberatore e creatore… la voce che non comanda, ma canta… e la sua opera è gioco; infine Narciso vive una vita di bellezza e la sua esistenza è contemplazione. Sia Orfeo che Narciso, nella loro idealità, sono le immagini del “Grande Rifiuto”: esprimono la ribellione simbolica contro la logica del lavoro e della fatica: Le loro immagini riconciliano Eros e Thanatos. Esse rievocano l’esperienza di un mondo che non va dominato e controllato, ma liberato. Così intesa l’Arte è l’affermazione della vita sulla morte e, in quanto espressione della sensibilità e della sessualità, aiuta l’Eros ad esprimersi, espandendosi in maggiori unità nella sua lotta contro la morte.
In una delle sue ultime opere “La dimensione estetica” (1977) Marcuse sottolinea che l’arte autentica ha costituito sempre l’estrema frontiera della sovversione del proibito; essa esprime un “estraniamento dalla società”, una negatività totale rispetto all’universo consolidato del reale, con un linguaggio che nega il linguaggio ordinario, la “prose du monde” che evoca l’assente, l’illusorio, il paradiso perduto della bellezza. In questo senso l’arte, poiché possiede nella sua struttura ontologica l’elemento fondante della sovversione, può essere vista come alleata della rivoluzione, nello sforzo di cambiare il mondo. Il problema che si pone è quello di “ri-sessualizzare” la persona umana, rendendole l’esistenza come un “gioco”, ossia come attività libera e creatrice basata sulla fantasia e la spontaneità. Il gioco e la libera espansività sono intesi da Marcuse come principi di civiltà, perché subordinano il lavoro al libero evolversi delle potenzialità dell’uomo e cancellano quei tratti repressivi, sfruttatori e sublimi del lavoro, che sono identificati come valori superiori corrispondenti al principio di prestazione.
Seguendo sempre la teoria freudiana, che analizza i conflitti all’interno dell’uomo, più si espande la “libido”, più diminuisce “l’aggressività”; e le attuali forme di sessualità permissiva, imposte dalla società consumistica, che liberalizzano la morale “in alta misura”, non realizzano la profonda aspirazione umana dell’Eros, che è quella di liberare la libido repressa, per cui l’uomo è costretto a cercare altre vie di espressione nell’aggressività. Ora, poiché non esiste più il bisogno di sublimare le pulsioni sessuali (cioè deviarle dalla loro meta originaria) perché tutto è permesso (ma solo in apparenza, in quanto tutto è “amministrato” dalla logica della propaganda e dal commercio), esiste per Marcuse una falsa libertà sessuale, che lui chiama de-sublimazione repressiva, la quale mentre intensifica l’energia sessuale diminuisce quella erotica. Il trionfo completo di questa “razionalità”, da lui definita “strumentale”, è analizzato nel testo “L’uomo a una dimensione”, pubblicato nel 1964, anno in cui diventa docente all’università di Berkley in California, che reca per sottotitolo “L’ideologia della società industriale avanzata” e a cui fanno seguito molti saggi ad esso collegati. Questo tipo di razionalità, creata dalla scienza industriale avanzata, che ha assorbito il soggetto nell’oggetto, il pensiero critico nell’apparato tecnologico e politico, è riuscita nel suo intento di integrare tutte le classi sociali, di sopprimere il dissenso, di ingabbiare ogni individuo nel modello di vita dominante, di dare a tutti l’illusione di essere felici e di ottenere ciò che si desidera e, non ultimo, di ossificare l’universo linguistico nella direzione della quantità più che della qualità. Tutto ciò ha creato l’uomo “mutilato” e “banalizzato”, “manipolato” e “alienato”, ridotto a una sola dimensine, da una società avanzata estremamente controllata ed amministrata, in cui l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. Il termine totalitario, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Nell’odierno neo-capitalismo azionario, neo-colonialistico ed imperialistico, dal gigantesco e globalizzato sviluppo economico in cui opera un falso benessere, la nostra mente di “cittadini consumatori”, “assorbita dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa”, ha perso la sua “dimensione interiore” e con essa la capacità di pensare criticamente, per cui, mai come ora, si è verificato un “dominio ideologico” sia da parte delle classi dirigenti, sia dal capillare e martellante apparato di persuasione, che ci rendono schiavi del sistema ed incapaci di organizzare la nostra esistenza in modo autonomo e differente. Nemmeno la Filosofia si è salvata: anch’essa è stata ridotta a una dimensione, perché divenuta la filosofia “positivistica della razionalità tecnologica e della logica del dominio”. Il suo compito terapeutico – scrive – sarebbe un compito politico, giacchè l’universo stabilito del linguaggio comune inclina a coagularsi in un universo totalmente manipolato e indottrinato. La politica apparirebbe quindi nella filosofia… come l’intento concettuale di comprendere la realtà non mutilata.
Da ciò si capisce che Marcuse, fedele allo spirito della Scuola di Francoforte, affida alla filosofia il potere “negativo” di porsi in modo critico nei confronti del reale, in quanto capace di concepire e strutturare situazioni molto diverse da quelle presenti e di prospettare alternative più giuste e razionali. Il ruolo ed il significato della ragione è quello di essere negazione della negazione, che consiste nel rifiutare ciò che è presente per far vivere ciò che è assente. In questo atteggiamento si pone il proletariato e tutte le forze di opposizione di questo mondo, che si impegnano nell’abbattimento del negativo, del contraddittorio, dell’ingiusto, dell’irrazionale, del repressivo, del totalitario e di quanti ostacolano il pieno soddisfacimento dei bisogni dell’uomo. Visto che non vi sono vie di uscite in questo “universo totalitario”, dove trionfano il pragmatismo ed il positivismo logico, i percorsi di liberazione possibili, proposti da Marcuse, per iniziare un’opposizione rivoluzionari, sono diversi da quella indicata da Marx, perché la classe operaia nei paesi capitalistici avanzati è ormai pienamente integrata nel sistema. Indica, invece, tra gli affossatori del sistema, i settori emarginati di questa società, tra cui la gente dei ghetti e del terzo mondo, i ripudiati e gli stranieri, gli sfruttati e i perseguitati di altre razze e di altri colori, i disoccupati e gli inabili al lavoro. Essi esistono al di fuori del processo democratico; la loro vita rappresenta la più immediata e reale esigenza di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili. Per questo la loro opposizione è rivoluzionaria, anche se non lo è la loro coscienza. Manca ad essa, come pure ai gruppi spontanei della rivolta giovanile e alle tendenze anarchicamente disorganizzate, la potente energia che può venire solo dagli intellettuali di qualsiasi livello, che possono costituire una vera e propria avanguardia culturale dei processi di liberazione umana. Tutti costoro, che rappresentano la negazione determinata del superuomo nietzschiano, possono rappresentare quel potenziale esplosivo che Marcuse racchiude nella formula del Grande Rifiuto e possono realizzare “quell’utopia” finora “inafferrabile”, intesa come “contestazione permanente”, “progetto extra-storico”, sintesi di Ragione e di Eros, avvento di un nuovo socialismo che liberi l’uomo dal dominio irrazionale delle cose sull’uomo, ipotesi di poter “alzare il tetto del mondo” fra la vita e la morte, nel senso di riconsiderare il tempo spazio come struttura e barriera dell’esistenza e riuscire a spezzare la tensione tra finito e infinito, tra reale e ideale, che ha sempre caratterizzato la storia degli uomini.
Questo enorme e dirompente complesso di idee politico-sociali si diffonde rapidamente in USA e in Europa, divenendo patrimonio di una grande moltitudine, specie quella studentesca, di per sé già insoddisfatta e “gonfia” di disagio esistenziale, che nell’autunno del 1964, nell’università di Berkley (anno in cui Marcuse vi inizia ad insegnare e ove pubblica “L’uomo a una dimensione”) dà l’avvio a quella contestazione che si propaga in Europa soltanto nella primavera del 1968, dietro anche l’esempio della rivoluzione culturale avvenuta in Cina, ad opera di Mao Tse Tung, negli anni 1966-68, che vede coinvolti studenti, soldati e contadini. Tuttavia è a Parigi che si ritrovano uniti nella lotta studenti e operai in sciopero elevando barricate e innalzando la bandiera rossa sulla Sorbona occupata, sebbene abbiano rivendicazioni diverse che si risolveranno in esiti diversi. Nel famoso maggio francese Marcuse vede la prima grande verifica storica della sua filosofia: vede il valore creativo e tramutativo della rivoluzione giovanile studentesca. Il suo nome diventa il simbolo del filosofo del sessantotto che proclama le formule di tono eracliteo: la verità è l’insieme (il tutto), l’insieme è falso, il tutto è quello del presente-passato dei padri e delle madri e dei padri dei padri, ecc., ed altre ancora come: il vero positivo è la società del futuro, occorre abbattere il tutto con una frattura radicale, per ricostruire il tutto. Molti suoi scritti, tra cui “Eros e civiltà”, “L’uomo a una dimensione”, “Etica e Rivoluzione” (1964), e “La tolleranza repressiva” (1965) si rivelano fecondi e in sintonia con le idee e le speranze dei giovani in rivolta, svolgendo una funzione di guida e di “carica” anche per le avanguardie intellettuali che, in quel periodo, sia pure per una breve stagione, guidano la protesta.
Si dà il via ad una radicale critica delle idee pedagogiche, tecniche e didattiche che regolano gli istituti educativi, delle loro tradizionali gerarchie e del loro “controllo repressivo e burocratico”. Tale “rifiuto” investe tutte le scienze umane ed i soggiacenti rapporti sociali, e si estende anche alla famiglia e all’intera società, mettendo in discussione molte idee dominanti che riguardano anche la centralità del matrimonio, i tabù sessuali e persino gran parte dei valori su cui si regge la società civile industriale. La condanna colpisce in blocco sindacati, partiti, parlamenti e ceti dirigenti, perché tutti ingranaggi e strumenti della dominazione: in poche parole si denunciano i soprusi “dell’esistente contro l’essente”.
Scrive il filosofo marxista Louis Althusser (1918-1990), all’indomani del ’68: Lo scontro di maggio… è il più grande avvenimento della storia occidentale dopo la Resistenza e la vittoria sul nazismo. Gli studenti francesi, col chiedere tutto e subito, di fondare il potere sulla fantasia e sull’immaginazione, colpiscono al cuore l’esistenza dell’apparato repressivo sia politico che culturale e industriale. La loro azione, seppure sostanzialmente non approda a grossi risultati, costituisce un punto di svolta nella trasformazione della cultura tradizionale e nella vibrante denuncia di tutte le ideologie e le organizzazioni che subordinano lo sviluppo sociale e la solidarietà tra gli uomini a puri interessi di parte e ad esclusivi scopi di profitto.
In Italia l’insurrezione studentesca parte dal rifiuto dell’insegnamento impartito in forme autoritarie e dei connessi problemi della didattica, nonché dei pregiudizi di classe radicati nel sistema scolastico e, non ultimo, di un costume sociale considerato mediocre, meschino ed oppressivo. Siffatta denuncia è formulata apertamente dal coraggioso sacerdote cattolico don Lorenzo Milani (1923-1967), che nello scritto “Lettera a una professoressa”, pubblicato nel 1967, offre al movimento di contestazione giovanile un enorme patrimonio di idee ai fini di una lotta che abolisca l’autoritarismo borghese, i vecchi meccanismi ed i valori più consunti del potere della cultura occidentale, e diffonda tra i giovani valori di solidarietà, quali la lotta all’ingiustizia, all’individualismo ed al consumismo del capitalismo maturo. La protesta assume una dimensione corale nelle università non senza scontri e riesce, in linea di massima, a raggiungere gran parte dei traguardi prefissati, come l’adeguamento, anche se molto graduale, della scuola alla realtà moderna e, soprattutto, più allineata alle richieste del mondo del lavoro. Gli studenti conquistano nuovi spazi di autonomia e di gestione diretta dei problemi della scuola, ma la conquista forse più importante è la presa di coscienza che la lotta contro il sistema capitalistico richiede l’alleanza tra studenti e operai.
A Varsavia, a Praga e in Cecoslovacchia la contestazione assume forme di autodistruzione personale nei gruppi della gioventù studentesca, che nella tristemente nota “primavera di Praga” tenta di realizzare un nuovo modello di socialismo, che viene chiamato “dal volto umano”. Questa iniziativa viene soffocata dal massiccio intervento militare sovietico, che il 21 agosto ristabilisce lo “status quo”, per cui si parlerà dopo di “primavera uccisa”.
In uno dei suoi ultimi scritti, dal titolo “Controrivoluzione e rivolta” (1972), affiora un ripensamento di parecchie delle tesi sostenute da Marcuse fino al 1968. Prendendo le distanze dagli esiti terroristici di alcune frange dell’estremismo di sinistra, si convince che il mutamento radicale di mentalità, il “salto qualitativo dell’esistenza” deve avvenire prima di tutto nelle coscienze. Siccome il proletariato non è più classe rivoluzionaria, egli prevede, non senza una punta di amarezza, che la prossima rivoluzione terrà occupate generazioni e generazioni, perché investirà vasti strati sociali anche dei paesi emancipati e cosiddetti opulenti.