Alessandro Manzoni

I Promessi Sposi

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“I Promessi Sposi …facili per tutti”, a cura di Mario R. Storchi

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INTRODUZIONE

“L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti…”
“Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?”
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. “Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani”.
Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. “Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?” Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo.
Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.
Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto.
Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d’indovinare le critiche possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l’una dall’altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso genere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d’aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo.

 

 

CAPITOLO I

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute.
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi.
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi… i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno… ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante… per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri… A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi… tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive:
Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno… per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo… et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno… i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell’anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che… ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro… prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua… essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione.
Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda… e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s’era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.
Né fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell’anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
– Signor curato, – disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.
– Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
– Lei ha intenzione, – proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
– Cioè… – rispose, con voce tremolante, don Abbondio: – cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi… e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi… noi siamo i servitori del comune.
– Or bene, – gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.
– Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca…
– Orsù, – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito… lei c’intende.
– Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli…
– Ma, – interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o… – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e… – un’altra bestemmia.
– Zitto, zitto, – riprese il primo oratore: – il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: – se mi sapessero suggerire…
– Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?
– Il mio rispetto…
– Si spieghi meglio!
-… Disposto… disposto sempre all’ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
– Benissimo, e buona notte, messere, – disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. – Signori… – cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere.
Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d’aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz’altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l’interesse d’una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch’eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall’offenderle, per amor d’un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l’incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettar la vita in un’impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c’era pericolo; nell’opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa.
L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’ di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. “Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli… ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come… Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare… Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata…” Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de’ suoi pensieri contro quell’altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d’un’occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que’ titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: – Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.
– Vengo, – rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
– Misericordia! cos’ha, signor padrone?
– Niente, niente, – rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
– Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.
– Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.
– Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?…
– Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
– E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! – disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
– Date qui, date qui, – disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
– Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? – disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
– Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va… ne va la vita!
– La vita!
– La vita.
– Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai…
– Brava! come quando…
Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, – signor padrone, – disse, con voce commossa e da commovere, – io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo…
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: – per amor del cielo!
– Delle sue! – esclamò Perpetua. – Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
– Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
– Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
– Oh vedete, – disse don Abbondio, con voce stizzosa: – vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.
– Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi…
– Ma poi, sentiamo.
– Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente…
– Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?
– Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a…
– Volete tacere?
– Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le…
– Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
– Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
– Ci penserò io, – rispose, brontolando, don Abbondio: – sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare – E s’alzò, continuando: – non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.
– Mandi almen giù quest’altro gocciolo, – disse Perpetua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
– Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: – una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? – e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : – per amor del cielo! -, e disparve.

CAPITOLO II

Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo… Dio liberi! – Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm! – aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; “e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose”. Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. “Vedremo, – diceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo”. Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.
“Che abbia qualche pensiero per la testa”, argomentò Renzo tra sé; poi disse: – son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.
– Di che giorno volete parlare?
– Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?
– Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. – Oggi, oggi… abbiate pazienza, ma oggi non posso.
– Oggi non può! Cos’è nato?
– Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.
– Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica…
– E poi, e poi, e poi…
– E poi che cosa?
– E poi c’è degli imbrogli.
– Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
– Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.
– Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.
– Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?
– Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, – disse Renzo, cominciando ad alterarsi, – poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?
– Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora… basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori… basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.
– Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.
– Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?
– Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?
– Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,… – cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
– Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?
– Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
– Orsù!…
– Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi…
– Che discorsi son questi, signor mio? – proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.
– Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.
– In somma…
– In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.
– Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?
– Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet…
– Le ho detto che non voglio latino.
– Ma bisogna pur che vi spieghi…
– Ma non le ha già fatte queste ricerche?
– Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.
– Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare…
– Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma… ma ora mi son venute… basta, so io.
– E che vorrebbe ch’io facessi?
– Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.
– Per quanto?
“Siamo a buon porto”, pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, – via, – disse: – in quindici giorni cercherò,… procurerò…
– Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici… – riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: – via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana…
– E a Lucia che devo dire?
– Ch’è stato un mio sbaglio.
– E i discorsi del mondo?
– Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.
– E poi, non ci sarà più altri impedimenti?
– Quando vi dico…
– Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco -. E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.
Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.
– Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.
– Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.
– Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.
– Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?
“L’ho detto io, che c’era mistero sotto”, pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: – via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.
– Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.
– È vero, – riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, – è vero, – soggiunse, – ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?
– Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché… non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa.
– Chi è dunque che ci ha colpa? – domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta.
– Quando vi dico che non so niente… In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…
“Prepotenti! birboni! – pensò Renzo: – questi non sono i superiori”. – Via, – disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, – via, ditemi chi è.
– Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché… non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due -. Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
– Eh! eh! che novità è questa? – disse don Abbondio.
– Chi è quel prepotente, – disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, – chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia?
– Che? che? che? – balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.
– Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io. Come si chiama colui?
– Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’anima vostra.
– Penso che lo voglio saper subito, sul momento -. E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
– Misericordia! – esclamò con voce fioca don Abbondio.
– Lo voglio sapere.
– Chi v’ha detto…
– No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.
– Mi volete morto?
– Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.
– Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?
– Dunque parli.
Quel “dunque” fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.
– Mi promettete, mi giurate, – disse – di non parlarne con nessuno, di non dir mai…?
– Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.
A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: – don…
– Don? – ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all’indietro.
– Don Rodrigo! – pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori.
– Ah cane! – urlò Renzo. – E come ha fatto? Cosa le ha detto per…?
– Come eh? come? – rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. – Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo -. E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: – avete fatta una bella azione! M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste…! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere… eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.
– Posso aver fallato, – rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: – posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso…
Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, – giurate almeno… – gli disse.
– Posso aver fallato; e mi scusi, – rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.
– Giurate… – replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante.
– Posso aver fallato, – ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.
– Perpetua! Perpetua! – gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse.
È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: – Perpetua! – La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato”, e i “non ho parlato”, tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, – son servito -; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e… ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto… egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. “E Lucia?” Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!
Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo!
– Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va’ su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito -. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.
– Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore.
– Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.
– Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno!
– Dunque voi sapevate…? – disse Renzo.
– Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno!
– Che cosa sapevate?
– Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete mai detto niente.
– Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?
Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
– Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.

CAPITOLO III

Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt’e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva essere che doloroso: tutt’e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l’amore diverso che ognun d’essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. – A tua madre non dir niente d’una cosa simile!
– Ora vi dirò tutto, – rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
– Parla, parla! – Parlate, parlate! – gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
– Santissima Vergine! – esclamò Lucia: – chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! – E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. – Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito…
– A chi hai raccontato? – domandò Agnese, andando incontro, non senza un po’ di sdegno, al nome del confidente preferito.
– Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – rispose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura…
Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia aveva avute due buone ragioni: l’una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.
– E a voi, – disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: – e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!
– E che t’ha detto il padre? – domandò Agnese.
– M’ha detto che cercassi d’affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, – proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, – fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo… e questa mattina, ero tanto lontana da pensare… – Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
– Ah birbone! ah dannato! ah assassino! – gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
– Oh che imbroglio, per amor di Dio! – esclamava Agnese. Il giovine si fermò d’improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: – questa è l’ultima che fa quell’assassino.
– Ah! no, Renzo, per amor del cielo! – gridò Lucia. – No, no, per amor del cielo! Il Signore c’è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?
– No, no, per amor del cielo! – ripeteva Agnese.
– Renzo, – disse Lucia, con un’aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: – voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi.
– Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora…!
Lucia si rimise a piangere; e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti.
– Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato… so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor… Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.
– Lo conosco di vista, – disse Renzo.
– Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.
Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: – date qui, e andate innanzi -. Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: – figliuolo, ditemi il vostro caso.
– Vorrei dirle una parola in confidenza.
– Son qui, – rispose il dottore: – parlate -. E s’accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l’altra, ricominciò: – vorrei sapere da lei che ha studiato…
– Ditemi il fatto come sta, – interruppe il dottore.
– Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere…
– Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
– Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale.
“Ho capito”, disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. “Ho capito”. E subito si fece serio, ma d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. – Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e… appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.
Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
– Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco -. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: – il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo?
– Un pochino, signor dottore.
– Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno:
– Se bene, per la grida pubblicata d’ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l’Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta,eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente.
– E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l’esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville… sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d’affitti… eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
È il mio caso, – disse Renzo.
– Sentite, sentite, c’è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell’altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l’uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?
– Pare che abbian fatta la grida apposta per me.
– Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte… una piccola bagattella! all’arbitrio dell’Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir-re-mis-si-bil-mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n’è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.
Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. “Che sia matricolato costui”, pensava tra sé. – Ah! ah! – gli disse poi: – vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l’animo di fare, in un’occasione.
Per intender quest’uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d’ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all’atto d’affrontar qualcheduno, ne’ casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l’impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d’inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all’arbitrio di Sua Eccellenza.
Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta.
E parimente comanda a’ barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all’arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell’ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell’armatura, e un distintivo de’ bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de’ nostri lettori milanesi, che non si rammenti d’aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto.
– In verità, da povero figliuolo, – rispose Renzo, – io non ho mai portato ciuffo in vita mia.
– Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
– Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
– Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
– Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
– Le giuro…
– Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
– Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione.
Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de’ grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d’aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l’opera sua, quando si trattasse di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch’era accaduto. – Sicuro, – disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all’uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto – Deo gratias -. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l’imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
– Oh fra Galdino! – dissero le due donne.
– Il Signore sia con voi, – disse il frate. – Vengo alla cerca delle noci.
– Va’ a prender le noci per i padri, – disse Agnese. Lucia s’alzò, e s’avviò all’altra stanza, ma, prima d’entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un’occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: – e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos’è stato?
– Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, – rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. – E come va la cerca? – soggiunse poi, per mutar discorso.
– Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui -. E, così dicendo, si levò la bisaccia d’addosso, e la fece saltar tra le due mani. – Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
– Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s’ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto.
– E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna?
– No, in verità; raccontatemelo un poco.
– Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. “Che fate voi a quella povera pianta?” domandò il padre Macario. “Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna”. “Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie”. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, “padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento”. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.
Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s’avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: – vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla chiesa.
– Non volete altro? Non passerà un’ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio.
– Mi fido.
– Non dubitate -. E così detto, se n’andò, un po’ più curvo e più contento, di quel che fosse venuto.
Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl’infimi, ed esser servito da’ potenti, entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l’elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d’esser alle mani tra loro, gl’inzaccherassero la barba di fango. La parola “frate” veniva, in que’ tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d’ogni altr’ordine, eran oggetto de’ due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d’umiltà, s’esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da’ diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini.
Partito fra Galdino, – tutte quelle noci! – esclamò Agnese: – in quest’anno!
– Mamma, perdonatemi, – rispose Lucia; – ma, se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente…
– Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, – disse Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.
In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno.
– Bel parere che m’avete dato! – disse ad Agnese. – M’avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! – E raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione, annunziando che sperava d’aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impiccio. – Ma, se il padre, – disse, – non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell’altro.
Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. – Domani, – disse Lucia, – il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.
– Lo spero; – disse Renzo, – ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente.
Co’ dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a imbrunire.
– Buona notte, – disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi d’andarsene.
– Buona notte, – rispose Renzo, ancor più tristamente.
– Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi.
La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c’è giustizia, finalmente! – Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.

 

 

CAPITOLO IV

Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.
“Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo?” Bisogna soddisfare a tutte queste domande.
Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: – eh! io fo l’orecchio del mercante -. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.
Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: – fate luogo.
– Fate luogo voi, – rispose Lodovico. – La diritta è mia.
– Co’ vostri pari, è sempre mia.
– Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.
– Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.
– Voi mentite ch’io sia vile.
– Tu menti ch’io abbia mentito -. Questa risposta era di prammatica. – E, se tu fossi cavaliere, come son io, – aggiunse quel signore, – ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.
– E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.
– Gettate nel fango questo ribaldo, – disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.
– Vediamo! – disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.
– Temerario! – gridò l’altro, sfoderando la sua: – io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.
Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piùttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
– Com’è andata? – È uno. – Son due. – Gli ha fatto un occhiello nel ventre. – Chi è stato ammazzato? – Quel prepotente. – Oh santa Maria, che sconquasso! – Chi cerca trova. – Una le paga tutte. – Ha finito anche lui. – Che colpo! – Vuol essere una faccenda seria. – E quell’altro disgraziato! – Misericordia! che spettacolo! – Salvatelo, salvatelo. – Sta fresco anche lui. – Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti. – Scappi, scappi. Non si lasci prendere.
Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: – è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.
Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benché l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, – consolatevi – gli disse: – almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo -. Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. – E l’altro? – domandò ansiosamente al frate.
– L’altro era spirato, quand’io arrivai. Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.
Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.
La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.
Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: – è un troppo giusto dolore -. Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.
Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. – Permettetemi, padre, – disse, – che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo -. Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, – venga domani, – disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: “sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione”. Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: – io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio -. Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, – alzatevi, – disse, con voce alterata: – l’offesa… il fatto veramente… ma l’abito che portate… non solo questo, ma anche per voi… S’alzi, padre… Mio fratello… non lo posso negare… era un cavaliere… era un uomo… un po’ impetuoso… un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più… Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura -. E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: – io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!
– Perdono? – disse il gentiluomo. – Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti…
– Tutti! tutti! – gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un – bravo! bene! – scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: – padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia -. E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, – queste cose, – disse, – non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono -. Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva in teso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: – diavolo d’un frate! – (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) – diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello -. La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.
Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.
Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.
Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni.
Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: – oh padre Cristoforo! sia benedetto!

CAPITOLO IV

Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.
“Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo?” Bisogna soddisfare a tutte queste domande.
Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: – eh! io fo l’orecchio del mercante -. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.
Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: – fate luogo.
– Fate luogo voi, – rispose Lodovico. – La diritta è mia.
– Co’ vostri pari, è sempre mia.
– Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.
– Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.
– Voi mentite ch’io sia vile.
– Tu menti ch’io abbia mentito -. Questa risposta era di prammatica. – E, se tu fossi cavaliere, come son io, – aggiunse quel signore, – ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.
– E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.
– Gettate nel fango questo ribaldo, – disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.
– Vediamo! – disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.
– Temerario! – gridò l’altro, sfoderando la sua: – io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.
Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piùttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
– Com’è andata? – È uno. – Son due. – Gli ha fatto un occhiello nel ventre. – Chi è stato ammazzato? – Quel prepotente. – Oh santa Maria, che sconquasso! – Chi cerca trova. – Una le paga tutte. – Ha finito anche lui. – Che colpo! – Vuol essere una faccenda seria. – E quell’altro disgraziato! – Misericordia! che spettacolo! – Salvatelo, salvatelo. – Sta fresco anche lui. – Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti. – Scappi, scappi. Non si lasci prendere.
Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: – è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.
Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benché l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, – consolatevi – gli disse: – almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo -. Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. – E l’altro? – domandò ansiosamente al frate.
– L’altro era spirato, quand’io arrivai. Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.
Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.
La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.
Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: – è un troppo giusto dolore -. Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.
Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. – Permettetemi, padre, – disse, – che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo -. Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, – venga domani, – disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: “sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione”. Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: – io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio -. Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, – alzatevi, – disse, con voce alterata: – l’offesa… il fatto veramente… ma l’abito che portate… non solo questo, ma anche per voi… S’alzi, padre… Mio fratello… non lo posso negare… era un cavaliere… era un uomo… un po’ impetuoso… un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più… Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura -. E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: – io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!
– Perdono? – disse il gentiluomo. – Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti…
– Tutti! tutti! – gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un – bravo! bene! – scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: – padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia -. E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, – queste cose, – disse, – non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono -. Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva in teso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: – diavolo d’un frate! – (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) – diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello -. La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.
Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.
Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.
Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni.
Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: – oh padre Cristoforo! sia benedetto!

CAPITOLO V

Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un’occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde, con quel tono d’interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto leggiero della testa all’indietro, disse: – ebbene? – Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse d’aver osato… ma il frate s’avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a tre piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: – quietatevi, povera figliuola. E voi, – disse poi ad Agnese, – raccontatemi cosa c’è! – Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò: – o Dio benedetto! fino a quando…! – Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: – poverette! – disse: – Dio vi ha visitate. Povera Lucia!
– Non ci abbandonerà, padre? – disse questa, singhiozzando.
– Abbandonarvi! – rispose. – E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch’Egli mi confida! Non vi perdete d’animo: Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io, per confondere un… Vediamo, pensiamo quel che si possa fare.
Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e unite tutte le potenze dell’animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi. “Mettere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha d’una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand’anche questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?… E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l’amico del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d’una volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche dell’inquieto, dell’imbroglione, dell’accattabrighe; e, quel ch’è più, potrei fors’anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa poveretta”. Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.
Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso sull’uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per comunicare alle donne il suo progetto, il frate s’accorse di lui, e lo salutò in un modo ch’esprimeva un’affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.
– Le hanno detto…, padre? – gli domandò Renzo, con voce commossa.
– Pur troppo; e per questo son qui.
Che dice di quel birbone…?
– Che vuoi ch’io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t’abbandonerà.
– Benedette le sue parole! – esclamò il giovane. – Lei non è di quelli che dan sempre torto a’ poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause perse…
– Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel poco che posso, non v’abbandonerò.
– Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?… bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano… – A questo punto, alzando gli occhi al volto del padre, vide che s’era tutto rannuvolato, e s’accorse d’aver detto ciò che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s’andava intrigando e imbrogliando: – volevo dire… non intendo dire… cioè, volevo dire…
– Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l’opera mia, prima che fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu andavi in cerca d’amici… quali amici!… che non t’avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l’amico de’ tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure… – A questo punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder d’autorità, s’atteggiò d’una compunzione solenne, gli occhi s’abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: – quando pure… è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?… che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?
– Oh sì! – rispose Renzo. – Quello è il Signore davvero.
– Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti lascerai guidar da me.
– Lo prometto. Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso d’addosso; e Agnese disse: – bravo figliuolo.
– Sentite, figliuoli, – riprese fra Cristoforo: – io anderò oggi a parlare a quell’uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete -. Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S’avviò al convento, arrivò a tempo d’andare in coro a cantar sesta, desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare.
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.
Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro. Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de’ bravi s’alzò, e gli disse: – padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon’aria per me; e se mi avesser tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male -. Così dicendo, diede due picchi col martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand’inchino, acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l’ospite in un angusto cortile, e richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una cert’aria di maraviglia e di rispetto, disse: – non è lei… il padre Cristoforo di Pescarenico?
– Per l’appunto.
– Lei qui?
– Come vedete, buon uomo.
– Sarà per far del bene. Del bene, – continuò mormorando tra i denti, e rincamminandosi, – se ne può far per tutto -. Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e stava contrastando dietro l’uscio col servitore, per ottenere d’essere lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l’uscio s’aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, – ehi! ehi! – gridò: – non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti -. Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso, n’avrebbe fatto di meno. Ma, poiché lo spensierato d’Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: – venga, padre, venga -. Il padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de’ commensali.
L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.
– Da sedere al padre, – disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d’esser venuto in ora inopportuna. – Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza, – soggiunse poi, con voce più sommessa, all’orecchio di don Rodrigo.
– Bene, bene, parleremo; – rispose questo: – ma intanto si porti da bere al padre. Il padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto ch’era ricominciato, gridava: – no, per bacco, non mi farà questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del mio vino, né un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de’ miei boschi -. Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un momento la questione che s’agitava caldamente tra i commensali. Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto pressante dell’uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.
– L’autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è contro di lei; – riprese a urlare il conte Attilio: – perché quell’uomo erudito, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione…
– Ma questo – replicava, non meno urlando, il podestà, – questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto…
– Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime…?
– Con buona licenza di lor signori, – interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti: – rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.
– Bene, benissimo, – disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata di far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate.
– Ma, da quel che mi pare d’aver capito, – disse il padre, – non son cose di cui io mi deva intendere.
– Solite scuse di modestia di loro padri; – disse don Rodrigo: – ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.
– Il fatto è questo, – cominciava a gridare il conte Attilio.
– Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, – riprese don Rodrigo. – Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta…
– Ben date, ben applicate, – gridò il conte Attilio. – Fu una vera ispirazione.
– Del demonio, – soggiunse il podestà. – Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.
– Sì, signore, da cavaliere, – gridò il conte: – e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d’un mascalzone.
– Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.
– Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo…
– Risponda un poco a questo sillogismo.
– Niente, niente, niente.
– Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo…
– Piano, piano, signor podestà.
– Che piano?
– Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi… ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?
– Io… – rispose confusetto il dottore: – io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice… qui il padre…
– È vero; – disse don Rodrigo: – ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?
– Ammutolisco, – disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione.
– Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre, – disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria.
– Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo, – rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.
– Scuse magre: – gridarono i due cugini: – vogliamo la sentenza!
– Quand’è così, – riprese il frate, – il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate.
I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati.
– Oh questa è grossa! – disse il conte Attilio. – Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.
– Lui? – disse don Rodrigo: – me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?
In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sé medesimo: “queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto”.
– Sarà, – disse il cugino: – ma il padre… come si chiama il padre?
– Padre Cristoforo – rispose più d’uno.
– Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.
– Animo, dottore, – scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, – animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.
– In verità, – rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, – in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.
Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate.
Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un’altra. – A proposito, – disse, – ho sentito che a Milano correvan voci d’accomodamento.
Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell’impero, così le due parti s’adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l’imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato.
– Non son lontano dal credere, – disse il conte Attilio, – che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi…
– Non creda, signor conte, non creda, – interruppe il podestà. – Io, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato del conte duca, è informato d’ogni cosa…
– Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com’è, per la pace, ha fatto proposizioni…
– Così dev’essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e…
– E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo chiamano, e se…
– Il nome legittimo in lingua alemanna, – interruppe ancora il podestà, – è Vagliensteino, come l’ho sentito proferir più volte dal nostro signor castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che…
– Mi vuole insegnare…? – riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli dié d’occhio, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele gonfie, il corso della sua eloquenza. – Vagliensteino mi dà poco fastidio; perché il conte duca ha l’occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà fare il bell’umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le cattive. Ha l’occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il chiodo, come l’ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell’acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler cozzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent’anni, per sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che invidia; testa vuol esser: e teste come la testa d’un conte duca, ce n’è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei, – proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po’ maravigliato anche lui di non incontrar mai uno scoglio: – il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond’è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare con qualche cognizion di causa; perché quel brav’uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino cosa bolle in pentola di tutte l’altre corti; e tutti que’ politiconi (che ce n’è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te l’ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que’ suoi fili tesi per tutto. Quel pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca…
Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche da’ versacci che faceva il cugino, si voltò all’improvviso, come se gli venisse un’ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco.
– Signor podestà, e signori miei! – disse poi: – un brindisi al conte duca; e mi sapranno dire se il vino sia degno del personaggio -. Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perché tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in parte come fatto a sé.
– Viva mill’anni don Gasparo Guzman, conte d’Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore! – esclamò, alzando il bicchiere.
Privato, chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que’ tempi, per significare il favorito d’un principe.
– Viva mill’anni! – risposer tutti.
– Servite il padre, – disse don Rodrigo.
– Mi perdoni; – rispose il padre: – ma ho già fatto un disordine, e non potrei…
– Come! – disse don Rodrigo: – si tratta d’un brindisi al conte duca. Vuol dunque far credere ch’ella tenga dai navarrini?
Così si chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro.
A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far con parole.
– Che ne dite eh, dottore? – domandò don Rodrigo. Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: – dico, proferisco, e sentenzio che questo è l’Olivares de’ vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d’Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza.
– Ben detto! ben definito! – gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola, carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan tutti d’accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. – Non c’è carestia, – diceva uno: – sono gl’incettatori…
– E i fornai, – diceva un altro: – che nascondono il grano. Impiccarli.
– Appunto; impiccarli, senza misericordia.
– De’ buoni processi, – gridava il podestà.
– Che processi? – gridava più forte il conte Attilio: – giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.
– Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla.
– Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.
Don Rodrigo intanto dava dell’occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza né di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d’affrontarla subito, e di liberarsene; s’alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s’avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s’era subito alzato con gli altri; gli disse: – eccomi a’ suoi comandi -; e lo condusse in un’altra sala.

CAPITOLO VI

– In che posso ubbidirla? – disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: – vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo… la coscienza, l’onore…
– Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende.
Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s’impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: – se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire… – e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, – non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L’innocenza è potente al suo…
– Eh, padre! – interruppe bruscamente don Rodrigo: – il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.
Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: – lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch’io fo ora qui, non è né vile né spregevole. M’ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria… qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma…
– Sa lei, – disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, – sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh! – e continuò, con un sorriso forzato di scherno: – lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno che i principi.
– E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente…
– In somma, padre, – disse don Rodrigo, facendo atto d’andarsene, – io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un gentiluomo.
Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: – la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.
– Ebbene, – disse don Rodrigo, – giacché lei crede ch’io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore…
– Ebbene? – riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole.
– Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.
A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due.
– La vostra protezione! – esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: – la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.
– Come parli, frate?…
– Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.
– Come! in questa casa…!
– Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: – escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.
Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villanià, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda.
– Villano rincivilito! – proseguì don Rodrigo: – tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.
Quando il frate ebbe serrato l’uscio dietro a sé, vide nell’altra stanza dove entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch’era venuto a riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da quarant’anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del padre, il quale era stato tutt’un’altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo brigata nuova, aveva però ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perché, sebben di massime e di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due qualità: un’alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del cerimoniale, di cui conosceva, meglio d’ogni altro, le più antiche tradizioni, e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si sarebbe mai arrischiato d’accennare, non che d’esprimere la sua disapprovazione di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione, qualche rimprovero tra i denti a’ suoi colleghi di servizio; i quali se ne ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi dell’antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n’eran fatte; dimodoché riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza risentimento. Ne’ giorni poi d’invito e di ricevimento, il vecchio diventava un personaggio serio e d’importanza.
Il padre Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: – padre, ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle.
– Dite presto, buon uomo.
– Qui no: guai se il padrone s’avvede… Ma io so molte cose; e vedrò di venir domani al convento.
– C’è qualche disegno?
– Qualcosa per aria c’è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull’intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose…! cose di fuoco! Sono in una casa…! Ma io vorrei salvar l’anima mia.
– Il Signore vi benedica! – e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo dinanzi, nell’attitudine d’un figliuolo. – Il Signore vi ricompenserà, – proseguì il frate: – non mancate di venir domani.
– Verrò, – rispose il servitore: – ma lei vada via subito e… per amor del cielo… non mi nomini -. Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l’altra parte dell’andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell’ultima parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore gli additò l’uscita; e il frate, senza dir altro, partì.
Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare.
Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più liberamente, e s’avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito, e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione. “Ecco un filo, – pensava, – un filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo!” Così ruminando, alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benché sentisse le ossa gravi e fiaccate da’ vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo, per poter riportare un avviso, qual si fosse, a’ suoi protetti, e arrivar poi al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco.
Intanto, nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de’ quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il desinare; Renzo sul punto d’andarsene ogni momento, per levarsi dalla vista di lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta, in apparenza, all’aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava maturando un progetto; e, quando le parve maturo, ruppe il silenzio in questi termini:
– Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi fidate di vostra madre, – a quel vostra Lucia si riscosse, – io m’impegno di cavarvi di quest’impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo, quantunque sia quell’uomo che è -. Lucia rimase lì, e la guardò con un volto ch’esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e Renzo disse subitamente: – cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si può fare.
– Non è vero, – proseguì Agnese, – che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?
– C’è dubbio? – disse Renzo: – maritati che fossimo… tutto il mondo è paese; e, a due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante volte Bortolo mio cugino m’ha fatto sollecitare d’andar là a star con lui, che farei fortuna, com’ha fatto lui: e se non gli ho mai dato retta, gli è… che serve? perché il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme, si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell’unghie di questo ribaldo, lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N’è vero, Lucia?
– Sì, – disse Lucia: – ma come…?
– Come ho detto io, – riprese la madre: – cuore e destrezza; e la cosa è facile.
– Facile! – dissero insieme que’ due, per cui la cosa era divenuta tanto stranamente e dolorosamente difficile.
– Facile, a saperla fare, – replicò Agnese. – Ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia.
– Come sta questa faccenda? – domandò Renzo.
– Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d’accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all’improvviso, che non abbia tempo di scappare. L’uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell’e fatto, sacrosanto come se l’avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.
– Possibile? – esclamò Lucia.
– Come! – disse Agnese: – state a vedere che, in trent’anni che ho passati in questo mondo, prima che nasceste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno contro la volontà de’ suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all’erta; ma i due diavoli seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e furon marito e moglie: benché la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre giorni.
Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci riuscire: ché, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d’essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza.
– Se fosse vero, Lucia! – disse Renzo, guardandola con un’aria d’aspettazione supplichevole.
– Come! se fosse vero! – disse Agnese. – Anche voi credete ch’io dica fandonie. Io m’affanno per voi, e non sono creduta: bene bene; cavatevi d’impiccio come potete: io me ne lavo le mani.
– Ah no! non ci abbandonate, – disse Renzo. – Parlo così, perché la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia madre.
Queste parole fecero svanire il piccolo sdegno d’Agnese, e dimenticare un proponimento che, per verità, non era stato serio.
– Ma perché dunque, mamma, – disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, – perché questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo?
– In mente? – rispose Agnese: – pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne avrà voluto parlare.
– Perché? – domandarono a un tratto i due giovani.
– Perché… perché, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene.
– Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand’è fatta? – disse Renzo.
– Che volete ch’io vi dica? – rispose Agnese. – La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose… Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che gliel abbiate, né anche il papa non glielo può levare.
– Se è cosa che non istà bene, – disse Lucia, – non bisogna farla.
– Che! – disse Agnese, – ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se fosse contro la volontà de’ tuoi parenti, per prendere un rompicollo… ma, contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le difficoltà è un birbone; e il signor curato…
– L’è chiara, che l’intenderebbe ognuno, – disse Renzo.
– Non bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa, – proseguì Agnese: – ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il padre? “Ah figliuola! è una scappata grossa; me l’avete fatta”. I religiosi devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui.
Lucia, senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però capacitata: ma Renzo, tutto rincorato, disse: – quand’è così, la cosa è fatta.
– Piano, – disse Agnese. – E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? ché, benché sia pesante di sua natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall’acqua santa.
– L’ho trovato io il verso, l’ho trovato, – disse Renzo, battendo il pugno sulla tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto.
– Son imbrogli, – disse Lucia: – non son cose lisce. Finora abbiamo operato sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo l’ha detto. Sentiamo il suo parere.
– Lasciati guidare da chi ne sa più di te, – disse Agnese, con volto grave. – Che bisogno c’è di chieder pareri? Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto. Al padre racconteremo tutto, a cose fatte.
– Lucia, – disse Renzo, – volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutte le cose da buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il giorno e l’ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora aiutarci con un po’ d’ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la risposta -. E, salutando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un’aria d’intelligenza, partì in fretta.
Le tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano di vita percorso da lui fin allora, non s’era mai trovato nell’occasione d’assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, da far onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. Ma non c’era quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo : – volete restar servito? -, complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone.
– Vi ringrazio, – rispose Renzo: – venivo solamente per dire una parolina a Tonio; e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo andar a desinare all’osteria, e lì parleremo -. La proposta fu per Tonio tanto più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L’invitato non istette a domandar altro, e andò con Renzo.
Giunti all’osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta solitudine, giacché la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: – se tu vuoi farmi un piccolo servizio, io te ne voglio fare uno grande.
– Parla, parla; comandami pure, – rispose Tonio, mescendo.
– Oggi mi butterei nel fuoco per te.
– Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo, che lavoravi, l’anno passato.
– Ah, Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M’hai fatto andar via il buon umore.
– Se ti parlo del debito, – disse Renzo, – è perché, se tu vuoi, io intendo di darti il mezzo di pagarlo.
– Dici davvero?
– Davvero. Eh? saresti contento?
– Contento? Per diana. se sarei contento! Se non foss’altro, per non veder più que’ versacci, e que’ cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta che c’incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo, per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta. Ma…
– Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate.
– Di’ su.
– Ma…! – disse Renzo, mettendo il dito alla bocca.
– Fa bisogno di queste cose? tu mi conosci.
– Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell’e fatto. M’hai tu inteso?
– Tu vuoi ch’io venga per testimonio?
– Per l’appunto.
– E pagherai per me le venticinque lire?
– Così l’intendo.
– Birba chi manca.
– Ma bisogna trovare un altro testimonio.
– L’ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere?
– E da mangiare, – rispose Renzo. – Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà fare?
– Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello.
– Domani…
Bene.
– Verso sera…
– Benone.
– Ma…! – disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca.
– Poh…! – rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto.
– Ma, se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio…
– Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in pace.
– Domattina, – disse Renzo, – discorreremo con più comodo, per intenderci bene su tutto.
Con questo, uscirono dall’osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando la fandonia che racconterebbe alle donne, e Renzo, a render conto de’ concerti presi.
In questo tempo Agnese, s’era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa andava opponendo a ogni ragione, ora l’una, ora l’altra parte del suo dilemma: o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non dirla al padre Cristoforo?
Renzo arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn? interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili.
Lucia tentennava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavan poco, come si suol fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la ragione d’una cosa, e che s’indurrà poi, con le preghiere e con l’autorità, a ciò che si vuol da lui.
– Va bene, – disse Agnese: – va bene; ma… non avete pensato a tutto.
– Cosa ci manca? – rispose Renzo.
– E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più che un ragazzo da un pero che ha le frutte mature.
– Come faremo? – disse Renzo, un po’ imbrogliato.
– Ecco: ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda… vedrete.
– Benedetta voi! – esclamò Renzo: – l’ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto.
– Ma tutto questo non serve a nulla, – disse Agnese, – se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato.
Renzo mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere.
– Io non so che rispondere a queste vostre ragioni, – diceva: – ma vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser vostra moglie, – e non c’era verso che potesse proferir quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso: – io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d’aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perché far misteri al padre Cristoforo?
La disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestìo affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all’orecchio di Lucia: – bada bene, ve’, di non dirgli nulla.

CAPITOLO VII

Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini.
– La pace sia con voi, – disse, nell’entrare. – Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.
Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piùttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento. Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
– Vorrei sapere, – gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; – vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere… per sostenere che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.
– Povero Renzo! – rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza : – se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.
– Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole?
Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente.
– Ma qualcosa ha dovuto dire: cos’ha detto quel tizzone d’inferno?
– Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figurato nemmen di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma… ma pur troppo ho dovuto intendere ch’è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo… oh! credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu…! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi… sappiate tutti ch’io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch’io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.
Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti.
– Avete sentito cos’ha detto d’un non so che… d’un filo che ha, per aiutarci? – disse Lucia. – Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci…
– Se non c’è altro…! – interruppe Agnese. – Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo…
– Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! – interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
– Oh Renzo! – esclamò Lucia.
– Cosa volete dire? – esclamò Agnese.
– Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui…
– No, no, per amor del cielo…! – cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
– Non son discorsi da farsi, neppur per burla, – disse Agnese.
– Per burla? – gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. – Per burla! vedrete se sarà burla.
– Oh Renzo! – disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: – non v’ho mai visto così.
– Non dite queste cose, per amor del cielo, – riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. – Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand’anche… Dio liberi!… contro i poveri c’è sempre giustizia.
– La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza… e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà…! e poi in tre salti…!
L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: – non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse… Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re…
E bene! – gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: – io non v’avrò; ma non v’avrà né anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del…
– Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così, – esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: – questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!
– E io che male v’ho fatto, perché mi facciate morire? – disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti.
– Voi! – rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira tuttavia: – voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!
– Sì sì, – rispose precipitosamente Lucia: – verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.
– Me lo promettete? – disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt’a un tratto, più umano.
– Ve lo prometto.
– Me l’avete promesso.
– Signore, vi ringrazio! – esclamò Agnese, doppiamente contenta.
In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.
– Ve l’ho promesso, – rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: – ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre…
– Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito?
– No no, – disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. – Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia…
– Perché volete far de’ cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno.
– Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima.
– Ve lo prometto, da povero figliuolo.
– Ma, questa volta, mantenete poi, – disse Agnese.
Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.
Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel’augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell’ora, si trattenesse più a lungo.
La notte però fu a tutt’e tre così buona come può essere quella che succede a un giorno pieno d’agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a un’impresa importante, e d’esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon’ora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand’operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora l’uno ora l’altra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.
– Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera? – domandò Agnese a Renzo.
– Le zucche! – rispose questo: – sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.
– Manderò Menico.
– Va bene, – rispose Renzo; e partì, per accudire all’affare, come aveva detto.
Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch’era un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, – per un certo servizio, – diceva. Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. – Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo…
– Ho capito, – disse Menico: – quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dà, ogni tanto, qualche santino.
– Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de’ compagni, al lago, a veder pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far quell’altro tuo giochetto solito…
Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole.
– Poh! zia; non son poi un ragazzo.
– Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta… guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te.
– Datemele ora, ch’è lo stesso.
– No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n’avrai anche di più.
Nel rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Un mendico, né rifinito né cencioso come i suoi pari, e con un non so che d’oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert’occhiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con un’indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese s’affrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lì diede un’altra occhiata in fretta, come poté. Gridatogli dietro: – ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! – tornò indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, e guardavan sott’occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese s’alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s’affacciava all’uscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: – nessuno – : parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che né l’una né l’altra ne sapessero ben chiaramente il perché. Ma ne rimase a tutt’e due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.
Convien però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que’ ronzatori misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de’ nemici e de’ suoi soldati, torvo nella guardatura, co’ capelli corti e ritti, co’ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l’eroe, con le gambiere, co’ cosciali, con la corazza, co’ bracciali, co’ guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de’ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un’ampia toga nera; tutto nero, fuorché un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo de’ senatori, e non lo portavan che l’inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d’estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de’ suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s’arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch’era trattenuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che que’ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: – e il conte Attilio? – domandò, sempre camminando, don Rodrigo.
– È uscito con que’ signori, illustrissimo.
– Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito.
Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva. Come inferiori, l’inchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; ché, in que’ contorni, non ce n’era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, d’aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che s’incontrasse col signor castellano spagnolo, l’inchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado l’uno dell’altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch’è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
– Cugino, quando pagate questa scommessa? – disse, con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.
– San Martino non è ancor passato.
– Tant’è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario, prima che…
– Questo è quel che si vedrà.
– Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo d’aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un’altra.
– Sentiamo.
– Che il padre… il padre… che so io? quel frate in somma v’ha convertito.
– Eccone un’altra delle vostre.
– Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo -. E qui, parlando col naso, accompagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: – in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d’ogni erba un fascio, aveva messo gli occhi…
– Basta, basta, – interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. – Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch’io.
– Diavolo! che aveste voi convertito il padre!
– Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà -. La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano né incamminati, né assolutamente fissati.
La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L’immagini più recenti della passeggiata trionfale, degl’inchini, dell’accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito non poco a rendergli l’animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. “Cose grosse”, disse tra sé il servitore a cui fu dato l’ordine; perché l’uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de’ bravi, quello a cui s’imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Cosi, impegnandosi a ogni delitto che gli venisse comandato, colui si era assicurata l’impunità del primo. Per don Rodrigo, l’acquisto non era stato di poca importanza; perché il Griso, oltre all’essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell’opinione.
– Griso! – disse don Rodrigo: – in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.
– Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone.
– Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purché la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male.
– Signore, un po’ di spavento, perché la non faccia troppo strepito… non si potrà far di meno.
– Spavento… capisco… è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?
– Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.
– Sotto la tua sicurtà. E… come farai?
– Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare. e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa… vossignoria non saprà niente di queste cose… una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.
– Va bene; e poi?
Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l’impresa, senza che rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, d’impor silenzio alla povera Agnese, d’incutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi; e tutte l’altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perché, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se n’andava, per metter mano all’esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: – senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell’unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così, l’ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più sicuramente l’effetto. Ma non l’andate a cercare, per non guastare quello che più importa: tu m’hai inteso.
– Lasci fare a me, – rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d’ossequio e di millanteria; e se n’andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s’era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s’eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dell’impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si poté fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, s’accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di là, commentando tra sé una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di prendere un po’ d’aria, e s’incamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro all’osteria del paesetto; uno che si mettesse sull’uscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare.
Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: – Tonio e Gervaso m’aspettan fuori: vo con loro all’osteria, a mangiare un boccone; e, quando sonerà l’ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento -. Lucia sospirò, e ripeté: – coraggio, – con una voce che smentiva la parola.
Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava, da una parte e dall’altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch’era innanzi agli altri, fu lì per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un’impresa scabrosa alle mani, non fece vista d’accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l’altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l’apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce, cioè que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede), e mescendosi or l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch’era tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran “sei” che n’era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d’occhio al compagno, poi a quel dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne’ loro aspetti un’interpretazione di tutti que’ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’oste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sé in una stanza vicina, e ordinò la cena.
– Chi sono que’ forestieri? – gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.
– Non li conosco, – rispose l’oste, spiegando la tovaglia.
– Come? né anche uno?
– Sapete bene, – rispose ancora colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola, – che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate.
– Come potete sapere…? – ripigliava Renzo; ma l’oste, già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: – Chi sono que’ galantuomini?
– Buona gente qui del paese, – rispose l’oste, scodellando le polpette nel piatto.
– Va bene; ma come si chiamano? chi sono? – insistette colui, con voce alquanto sgarbata.
– Uno si chiama Renzo, – rispose l’oste, pur sottovoce: – un buon giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L’altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n’abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L’altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con permesso.
E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l’interrogante; e ando a portare il piatto a chi si doveva. – Come potete sapere, – riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire, – che siano galantuomini, se non li conoscete?
– Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce all’azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? – Così dicendo, se ne tornò in cucina.
Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice ch’era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?
La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma l’invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un po’ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora d’andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate.
– Che bella cosa, – scappò fuori di punto in bianco Gervaso, – che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno…! – Renzo gli fece un viso brusco. – Vuoi stare zitto, bestia? – gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un po’ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a Renzo, come quand’era entrato. Questo, fatti ch’ebbe pochi passi fuori dell’osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co’ suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s’accorsero d’essere osservati, si fermarono anch’essi, si parlaron sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. – Sarebbe però un bell’onore, senza contar la mancia, – diceva uno de’ malandrini, – se, tornando al palazzo, potessimo raccontare d’avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare.
– E guastare il negozio principale! – rispondeva l’altro. – Ecco: s’è avvisto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar tutti a pollaio.
C’era in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno. Quando Renzo vide che i due indiscreti s’eran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora all’uno, ora all’altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch’era già notte.
Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno), l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce d’un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio all’opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto: talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s’era appena badato; l’immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d’ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piùttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: – son qui, andiamo -; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo né forza di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d’attraversarlo: che s’andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l’angolo di essa; Agnese con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sé, e senza il quale non si poteva far nulla, s’affacciaron bravamente alla porta, e picchiarono.
– Chi è, a quest’ora? – gridò una voce dalla finestra, che s’aprì in quel momento: era la voce di Perpetua. – Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. È forse accaduta qualche disgrazia?
– Son io, – rispose Tonio, – con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato.
– È ora da cristiani questa? – disse bruscamente Perpetua. – Che discrezione? Tornate domani.
– Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri.
– Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire a quest’ora?
– Gli ho ricevuti, anch’io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l’ora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.
– No, no, aspettate un momento: torno con la risposta. Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: – coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente, – si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un momento.

CAPITOLO VIII

“Carneade! Chi era costui?” ruminava tra se don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?” Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio.
– A quest’ora? – disse anche don Abbondio, com’era naturale.
– Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo…
– Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire… Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?
– Diavolo! – rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: – dove siete? – Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome.
– Buona sera, Agnese, – disse Perpetua: – di dove si viene, a quest’ora?
– Vengo da… – e nominò un paesetto vicino. – E se sapeste… – continuò: – mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.
– Oh perché? – domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, – entrate, – disse, – che vengo anch’io.
– Perché, – rispose Agnese, – una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare… credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro…
– Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?
– Non me lo domandate, che non mi piace metter male.
– Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!
– Basta… ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei.
– Guardate se si può inventare, a questo modo! – esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: – in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere… Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo -. Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.
In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
– Deo gratias, – disse Tonio, a voce chiara.
– Tonio, eh? Entrate, – rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.
– Ah! ah! – fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.
– Dirà il signor curato, che son venuto tardi, – disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.
– Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?
– Oh! mi dispiace.
– L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere… Ma perché vi siete condotto dietro quel… quel figliuolo?
– Così per compagnia, signor curato.
– Basta, vediamo.
– Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, – disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.
– Vediamo, – replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.
– Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.
– È giusto, – rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: – va bene?
– Ora, – disse Tonio, – si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.
– Anche questa! – disse don Abbondio: – le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?
– Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito… dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così… dalla vita alla morte…
– Bene bene, – interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: – ora, sarete contento? – e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: – signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie -. Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e questo… – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: – Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto! – Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: – Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! – Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: – apra, apra; non faccia schiamazzo -. Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: – andiamo, andiamo, per l’amor di Dio -. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento.
In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
L’assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: – aiuto! aiuto! – Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: – cosa c’è?
– Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, – gridò verso lui don Abbondio. – Vengo subito, – rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra ‘l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello.
Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l’orecchio, si rizzano. – Cos’è? Cos’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi? – Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere.
Ma, prima che quelli fossero all’ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d’altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all’osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti d’aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati- e in fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacché non c’era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: – andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini -, s’incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n’era allontanata la nostra brigatella, andando anch’essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l’occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora, va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Tutto s’eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l’uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all’uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e’ poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell’uscio: nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque : – st -, chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino, entra nell’altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c’è nessuno. Torna indietro, va all’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch’era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinché il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre. Spinge mollemente l’uscio che mette alla prima stanza; l’uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l’occhio; è buio: vi mette l’orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. – Che diavolo è questo? – dice allora: – che qualche cane traditore abbia fatto la spia? – Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all’uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s’avvicinano in fretta; s’immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all’erta. In fatti, il calpestìo si ferma appunto all’uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l’amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perché… il perché lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. “Che è questo?” pensa; e spinge l’uscio con paura: quello s’apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: – zitto! o sei morto -. Lui in vece caccia un urlo: uno di que’ malandrini gli mette una mano alla bocca; l’altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt’a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all’uno e all’altro furfante parve di sentire in que’ tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov’era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall’alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s’urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all’uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s’era fatto vedere un po’ da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che s’avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto. – Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti -. Dopo questa breve aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli andaron dietro in buon ordine.
Lasciamoli andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d’allontanar l’altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto, la serva s’era ricordata dell’uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c’era che ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei, e andarle dietro, cercando di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto di que’ tali matrimoni andati a monte. Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: – sicuro: adesso capisco: va benissimo: è chiara: e poi? e lui? e voi? – Ma intanto, faceva un altro discorso con sé stessa. “Saranno usciti a quest’ora? o saranno ancor dentro? Che sciocchi che siamo stati tutt’e tre, a non concertar qualche segnale, per avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta: ora non c’è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un po’ di tempo perduto”. Così, a corserelle e a fermatine, eran tornate poco distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto, s’era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando, tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: – aiuto! aiuto!
– Misericordia! cos’è stato? – gridò Perpetua, e volle correre.
– Cosa c’è? cosa c’è? – disse Agnese, tenendola per la sottana.
– Misericordia! non avete sentito? – replicò quella, svincolandosi.
– Cosa c’è? cosa c’è? – ripeté Agnese, afferrandola per un braccio.
– Diavolo d’una donna! – esclamò Perpetua, rispingendola, per mettersi in libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo, si sente l’urlo di Menico.
– Misericordia! – grida anche Agnese; e di galoppo dietro l’altra. Avevan quasi appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua arriva, un momento prima dell’altra; mentre vuole spinger l’uscio, l’uscio si spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo.
– Cosa c’è? cosa c’è? – domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone, e scantonarono. – E voi! come! che fate qui voi? – domandò poscia all’altra coppia, quando l’ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò altro, entrò in fretta nell’andito, e corse, come poteva al buio, verso la scala. I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava tutt’affannata. – Ah siete qui! – disse questa, cavando fuori la parola a stento: – com’è andata? cos’è la campana? mi par d’aver sentito…
– A casa, a casa, – diceva Renzo, – prima che venga gente -. E s avviavano; ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con voce mezza fioca, dice: – dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento!
– Sei tu che…? – cominciava Agnese.
– Cosa c’è d’altro? – domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava.
– C’è il diavolo in casa, – riprese Menico ansante. – Gli ho visti io: m’hanno voluto ammazzare: l’ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori.
Renzo, ch’era il più in sé di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d’uno spaventato. Per istrada poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più chiara. – Cammina avanti, – gli disse. – Andiam con lui, – disse alle donne. Voltarono, s’incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversaron la piazza, dove per grazia del eielo, non c’era ancora anima vivente; entrarono in una stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo buco che videro in una siepe, dentro, e via per i campi.
Non s’eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie di feritoia, cacciò dentro un: – che diavolo c’è? – Quando Ambrogio sentì una voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch’era accorso molto popolo, rispose: – vengo ad aprire -. Si mise in fretta l’arnese che aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della chiesa, e l’aprì.
– Cos’è tutto questo fracasso? – Cos’è? – Dov’è? – Chi è?
– Come, chi è? – disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con l’altra, il lembo di quel tale arnese, che s’era messo così in fretta: – come! non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto -. Si voltan tutti a quella casa, vi s’avvicinano in folla, guardano in su, stanno in orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c’era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto.
– Chi è là dentro? – Ohe, ohe! – Signor curato! – Signor curato!
Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl’invasori, s’era ritirato dalla finestra, e l’aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto.
– Cos’è stato? – Che le hanno fatto? – Chi sono costoro? – Dove sono? – gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto.
– Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.
– Ma chi è stato? – Dove sono andati? – Che è accaduto?
– Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore -. E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle spalle, e se n’andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quello scompiglio de’ bravi, quando il Griso s’affannava a raccoglierli. Quand’ebbe ripreso fiato, gridò: – che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è!
– Che? – Che? – Che? – E comincia una consulta tumultuosa. – Bisogna andare. – Bisogna vedere. – Quanti sono? – Quanti siamo? – Chi sono? – Il console! il console!
– Son qui, – risponde il console, di mezzo alla folla: – son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov’è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti…
Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: – correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso! – A quest’avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl’invasori erano spariti. S’entra nel cortile; si va all’uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: – Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov’è il pellegrino? L’avrà sognato Stefano, il pellegrino. – No, no: l’ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! – Agnese! Lucia! – Nessuno risponde. – Le hanno portate via! Le hanno portate via! – Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire i rapitori: che era un’infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d’usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccase a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chiomati come due re de’ Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que’ medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell’accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentar le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia.
I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l’uno ora l’altro, a guardare se nessuno gl’inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l’incalzare continuo di que’ rintocchi, i quali, quanto, per l’allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all’intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com’era andata, domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt’e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l’avviso del padre, e raccontò quello ch’egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l’avviso. Gli ascoltatori compresero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron rabbrividire; si fermaron tutt’e tre a un tratto, si guardarono in viso l’un con l’altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt’e tre posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per dimostrargli la compassione che sentivano dell’angoscia da lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. – Ora torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, – gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, aggiungendo: – basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora… – Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che.
– E la casa? – disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante, nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.
Renzo s’affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto s’aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d’argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che non ci mancava nessuno, – Dio sia benedetto! – disse, e fece lor cenno ch’entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico sagrestano, ch’egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere que’ poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell’autorità del padre, della sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava susurrando all’orecchio: – ma padre, padre! di notte… in chiesa… con donne… chiudere… la regola… ma padre! – E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, “vedete un poco!” pensava il padre Cristoforo, “se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo…” – Omnia munda mundis, – disse poi, voltandosi tutt’a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l’effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: – basta! lei ne sa più di me.
– Fidatevi pure, – rispose il padre Cristoforo; e, all’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare, s’accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: – figliuoli! ringraziate il Signore, che v’ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento…! – E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacché non sospettava ch’essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d’una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi.
– Dopo di ciò, – continuò egli, – vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi, – continuò volgendosi alle due donne, – potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. – Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.
Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo.
Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire!
– Prima che partiate, – disse il padre, – preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto -. Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: – noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!… è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.
Alzatosi poi, come in fretta, disse: – via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate -. E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: – il cuor mi dice che ci rivedremo presto.
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla rivá ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.
Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda.

CAPITOLO IX

L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. – Di che cosa? – rispose quello: – siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro, – e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via.
Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva. Per render ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontarne in succinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover’uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l’hanno fatto trovare in altra parte. Uno storico milanese (Josephi Ripamontii, Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, Cap. III, pag. 358 et seq.) che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca.
I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un’osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia.
Dopo una sera quale l’abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio di una brezzolina più che autunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre di sedersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de’ contingenti bisogni d’un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt’e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s’aspettavan di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: – a rivederci, – e partì.
Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia.
– Oh! fra Cristoforo! – disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d’un grand’amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: – non c’è che la signora: se la signora vuol prendersi quest’impegno…
Tirata quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a tutt’e due: – donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v’abbia provvedute in miglior maniera. Volete venir con me?
Le donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: – bene; io vi conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perché la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con una bella giovine… con donne voglio dire.
Così dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese, la quale non poté tenersi di non fare altrettanto; e tutt’e tre si mossero, quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora.
– La signora, – rispose quello, – è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priorache anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.
Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso, che forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s’avviò al monastero, dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d’ore, tornasse da lui, a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed era ora, perché la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi dall’interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la signora. – E ben disposta per voi altre, – disse, – e vi può far del bene quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me -. Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di mettervi il piede, il guardiano, accennando l’uscio, disse sottovoce alle donne: – è qui, – come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò da quella parte, e vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.
Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant’altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere.
Era essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne’ vòti; e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. – Reverenda madre, e signora illustrissima, – disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al petto: – questa è quella povera giovine, per la quale m’ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.
Le due presentate facevano grand’inchini: la signora accennò loro con la mano, che bastava, e disse, voltandosi, al padre: – è una fortuna per me il poter fare un piacere a’ nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma, – continuò; – mi dica un po’ più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si possa fare per lei.
Lucia diventò rossa, e abbassò la testa.
– Deve sapere, reverenda madre… – incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò, con un’occhiata, le parole in bocca, e rispose: – questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de’ gravi pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d’un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche…
– Quali pericoli? – interruppe la signora. – Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto.
– Sono pericoli, – rispose il guardiano, – che all’orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati…
– Oh certamente, – disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l’avesse paragonato con quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.
– Basterà dire, – riprese il guardiano, – che un cavalier prepotente… non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo ch’erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.
– Accostatevi, quella giovine, – disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. – So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest’affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso -. In quanto all’accostarsi, Lucia ubbidì subito; ma rispondere era un’altra faccenda. Una domanda su quella materia, quand’anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l’avrebbe imbrogliata non poco: proferita da quella signora, e con una cert’aria di dubbio maligno, le levò ogni coraggio a rispondere. – Signora… madre… reverenda… – balbettò, e non dava segno d’aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che, dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credé autorizzata a venirle in aiuto. – Illustrissima signora, – disse, – io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l’acqua santa: voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato fosse stato un po’ più un uomo di quelli che m’intendo io… so che parlo d’un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare…
– Siete ben pronta a parlare senz’essere interrogata, – interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. – State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!
Agnese mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca, per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine, dandole d’occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma.
– Reverenda signora, – disse Lucia, – quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovine che mi discorreva, – e qui diventò rossa rossa, – lo prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di metterci al sicuro, giacché siam ridotte a far questa faccia di chieder ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.
– A voi credo, – disse la signora con voce raddolcita. – Ma avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non che abbia bisogno d’altri schiarimenti, né d’altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano, – aggiunse subito, rivolgendosi a lui, con una compitezza studiata. – Anzi, – continuò, – ci ho già pensato; ed ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del monastero ha maritata, pochi giorni sono, l’ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que’ pochi servizi che faceva lei. Veramente… – e qui accennò al guardiano che s’avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: – veramente, attesa la scarsezza dell’annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola… e per una premura del padre guardiano… In somma do la cosa per fatta.
Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l’interruppe: – non occorron cerimonie: anch’io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell’assistenza de’ padri cappuccini. Alla fine, – continuò, con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d’ironico e d’amaro, – alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?
Così detto, chiamò una conversa (due di queste erano, per una distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato), e le ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese. Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n’andò a scriver la lettera di ragguaglio all’amico Cristoforo. “Gran cervellino che è questa signora!” pensava tra sé, per la strada: “curiosa davvero! Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo non s’aspetterà certamente ch’io l’abbia servito così presto e bene. Quel brav’uomo! non c’è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto l’aflare a buon porto, in un batter d’occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s’accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa”.
La signora, che, alla presenza d’un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi ddla città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: – bello eh? – Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: – che madre badessa! – Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, – tu sei una ragazzina, – le si diceva: – queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso -. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, – ehi! ehi! – le diceva; – non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de’ momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica. E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d’esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo, e d’accattar consiglio e coraggio. C’era un’altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l’anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt’altro in testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d’informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacché non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d’artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, e, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d’una gran collera del principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l’uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott’anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com’ora si direbbe, il suo piano. “O mi vorranno forzare”, pensava, “e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata”. Ma, come accade spesso di simili previdenze, non avvenne né una cosa né l’altra. I giorni passavano, senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia de’ parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l’avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.
Tali sensazioni d’oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata, e s’occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d’una visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c’era invito. I servitori s’uniformavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio e all’intenzioni de’ padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe.
Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.
Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.
In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.

CAPITOLO X

Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: – perdono! – Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domando, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche… caso mai… che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei…
– Ah sì! – esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
– Ah! lo capite anche voi, – riprese incontanente il principe. – Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura -. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: – la principessa e il principino subito -. E seguitò poi con Gertrude: – voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.
A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.
Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, – ecco, – disse, – la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l’ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m’ha fatto intendere che è risoluta… – A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: – che è risoluta di prendere il velo.
– Brava! bene! – esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età l’avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno.
– Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa, – disse il principe. – Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi… perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria.
– Andiamo pure, – disse la principessa.
– Vo a dar gli ordini, – disse il principino.
– Ma… – proferì sommessamente Gertrude.
– Piano, piano, – riprese il principe: – lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?
– Domani, – rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo.
– Domani, – disse solennemente il principe: – ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l’esame -. Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso. L’occupazioni si succedevano senza interruzione, s’incastravano l’una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l’ultima mano, che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl’inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata vocazione.
La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: – ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.
Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dileguando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello.
– Finalmente, – disse il principe, – ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.
Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
– Come! – disse il principe: – v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia -. Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere.
La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la gita di Monza.
– Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest’ora dovrebbe esser fuor della cuccia.
All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
Quando vennero a avvertir ch’era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: – orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano… – È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. – V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.
Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi, che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c’era chi le potesse negar nulla.
– Son qui…, – cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c’è cascata la brava. Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: – son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente -. La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclamazioni. Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, – signor principe, – disse: – per ubbidire alle regole… per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso… pure devo dirle… che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,… la superiora, quale io sono indegnamente,… è obbligata d’avvertire i genitori… che se, per caso… forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà…
– Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto… Ma lei non può dubitare… – Oh! pensi, signor principe,… ho parlato per obbligo preciso,… del resto…
– Certo, certo, madre badessa.
Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra dentro la soglia claustrale. Dato luogo a un po’ d’altre ciarle, – Oh via, – disse il principe: – Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza -. Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talché, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, poté chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta.
Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de’ contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. – Bisognerà pensare a una madrina, – disse il principe: – perché domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell’esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri -. Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: – ci sarebbe… – Ma il principe interruppe: – No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei -. E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: – ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.
Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. – Ottima scelta, – disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi.
Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. – Orsù, figliuola, – le disse: – finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera. Tutto quel che s’è fatto finora, s’è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi… che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e… – Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: – via, via, tutto dipende da voi, dal vostro buon giudizio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto -. E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de’ godimenti ch’eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto.
L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d’una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta.
Dopo i primi complimenti, – signorina, – le disse, – io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch’io le faccia qualche interrogazione.
– Dica pure, – rispose Gertrude.
Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. – Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.
La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia… L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. – Mi fo monaca, – disse, nascondendo il suo turbamento, – mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
– Da quanto tempo le è nato codesto pensiero? – domandò ancora il buon prete.
– L’ho sempre avuto, – rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro se stessa.
– Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. – Il motivo, – disse, – è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.
– Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche… mi scusi… capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora…
– No, no, – rispose precipitosamente Gertrude: – la cagione è quella che le ho detto.
Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando le sale per uscire, s’abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.
Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all’aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l’aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva arnaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l’accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspettarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’ regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.
È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessita virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. Rimasticava quell’amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l’opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que’ doni.
La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione contro il suo sangue: e ogni po’ di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere, o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c’erano appunto state messe da quelle.
Qualche consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quell’altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l’alghe, che aveva prese, per una rabbia d’istinto.
Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse.
Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt’e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora.
Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e, che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perché nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: – s’è rifugiata in Olanda di sicuro, – si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o combattesse l’opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; né c’era cosa da cui s’astenesse più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai!
Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella frammischiava all’interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure s’avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l’interrogata. Avvedendosi poi d’aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti del cervello, cercò di correggere e d’interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non poté fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come un confuso spavento. E appena poté trovarsi sola con la madre, se n’aprì con lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que’ dubbi, e spiegò tutto il mistero. – Non te ne far maraviglia, – disse: – quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un po’ del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s’ha bisogno di loro; far vista d’ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai sentito come m’ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t’abbia preso a ben volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t’accaderà ancora d’aver che fare con de’ signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai.
Il desiderio d’obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d’aver trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che c’era un uomo troppo premuroso d’aver notizie d’una di loro, e nell’animo del quale, alla passione e alla picca di prima s’era aggiunta anche la stizza d’essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell’ora in cui stava attendendo l’esito della sua scellerata spedizione.

CAPITOLO XI

Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano. S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti. “In quanto ai sospetti”, pensava, “me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io fo ciarle o fatti. E poi… se mai nascesse qualche imbroglio… che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,… anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado”. Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. “Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che… il viso più umano qui son io, per bacco… che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se prega”.
Mentre fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro. “E la bussola? Diavolo! dov’è la bussola? Tre, cinque, otto: ci son tutti; c’è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto”.
Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, – ebbene, – gli disse, o gli gridò: – signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?
– L’è dura, – rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, – l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.
– Com’è andata? Sentiremo, sentiremo, – disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.
– Tu non hai torto, e ti sei portato bene, – disse don Rodrigo: – hai fatto quello che si poteva; ma… ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste.
– Anche a me, signore, – disse il Griso, – è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m’è parso di poter rilevare che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.
– Non siete stati riconosciuti almeno?
Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi precipitati coi quali lo aveva accolto.
Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.
La mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: – san Martino!
– Non so cosa vi dire, – rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: – pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perche, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma… basta, ora vi racconterò tutto.
– Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare, – disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. – Quel frate, – continuò, – con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno -. Don Rodrigo riferì il dialogo. – E voi avete avuto tanta sofferenza? – esclamò il conte Attilio: – e l’avete lasciato andare com’era venuto?
– Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?
– Non so, – disse il conte Attilio, – se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri.
– Non mi fate peggio.
– Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.
– Cosa pensate di fare?
– Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e… il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito.
Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quell’importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. – Di belle ciarle, – diceva, – faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m’importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch’io sia stato burlato così barbaramente.
– Avete fatto benissimo, – rispondeva il conte Attilio. – Codesto vostro podestà… gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà… è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che…
– Ma voi, – interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, – voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!
– Sapete, cugino, – disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, – sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà…
– Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?
– L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che efletto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.
Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione.
Lo scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro, perché dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è. Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente all’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perché, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un’impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perché, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni.
Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non si rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini. L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. – Fuggiti insieme! – gridò: – insieme! E quel frate birbante! Quel frate! – la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. – Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono… voglio sapere, voglio trovare… questa sera, voglio saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare… Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone…! quel frate…!
Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.
Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando, verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbatté, prima d’arrivare a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano.
Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato.
– Signore… – disse, tentennando, il Griso.
– Che? non ho io parlato chiaro?
– Se potesse mandar qualchedun altro…
– Come?
– Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi.
– Ebbene?
– Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e… Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io… è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto… li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza… ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.
– Che diavolo! – disse don Rodrigo: – tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanarsi!
– Credo, signor padrone, d’aver date prove…
– Dunque!
– Dunque, – ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, – dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.
– E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio… lo Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.
Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,

Leva il muso, adorando il vento infido,

se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho preso, perche mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti.
L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. “Le gride son tante!” pensava: “e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome”. Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.
Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.
Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il – mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un’immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: – di grazia, quel signore. – Che volete, bravo giovine?
– Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura?
L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, ché non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: – figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate -. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: – siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo giovine -. E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacché, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. “Grand’abbondanza”, disse tra sé, “ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna”. Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. “Vediamo un po’ che affare è questo”, disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. – È pane davvero! – disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? – Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. “Lo piglio?” deliberava tra sé: “poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò”. Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt’e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt’e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva.
– Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, – disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo.
– Io non li butto via; cascan da sé: com’ho a fare? – rispose quello.
– Ih! buon per te, che ho le mani impicciate, – riprese la donna, dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. – Via, via, – disse l’uomo: – torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace.
In tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: – dove si va a prendere il pane?
– Più avanti, – rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: – questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.
– Un po’ per uno, tormento che sei, – disse il marito: – abbondanza, abbondanza.
Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per arrivare al convento.
Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era.
– Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo.
– Date qui, – disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.
– No, no, – disse Renzo: – gliela devo consegnare in proprie mani.
– Non è in convento.
– Mi lasci entrare, che l’aspetterò.
– Fate a mio modo, – rispose il frate: – andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra -. E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. “Andiamo a vedere”, disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.

CAPITOLO XII

Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.
Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.
Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero molta paura; bisognava potere: e un po’ più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l’iniquità e l’insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest’altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.
Non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. – Ecco se c’è il pane! – gridarono cento voci insieme. – Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame, – dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: – lascia vedere -. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. – Giù quella gerla, – si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. – Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, – dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c’eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co’ fiocchi. – Al forno! al forno! – si grida.
Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono (El prestin di scansc.). A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada.
Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: – pane! pane! aprite! aprite!
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. – Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, – grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodoche quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
– Ma figliuoli, – predicava di lì il capitano, – che fate qui? A casa, a casa. Dov’è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di bene, ne per l’anima, né per il corpo. A casa, a casa.
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com’erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino al l’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. – Fateli dare addietro ch’io possa riprender fiato, – diceva agli alabardieri: – ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.
– Indietro! indietro! – gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; dànno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vòto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch’essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio!
– Figliuoli, – grida: molti si voltano in su; – figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa.
– Pane! pane! aprite! aprite! – eran le parole più distinte nell’urlìo orrendo, che la folla mandava in risposta.
– Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! che fate laggiu! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giu quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi… Ah canaglia!
Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. – Canaglia! canaglia! – continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz’aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
– Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora! – s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: – aspetta, aspetta, – si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n’andassero. E quelli se n’andavano, non tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell’impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece.
– Ora è scoperta, – gridava uno, – l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!
– Vi dico io che tutto questo non serve a nulla, – diceva un altro: – è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori.
Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
– Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli -. Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo.
– Io? – diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: – io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o doman l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c’è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca.
– Quello che protegge i fornai, – gridava una voce sonora, che attirò l’attenzione di Renzo, – è il vicario di provvisione.
– Son tutti birboni, – diceva un vicino.
– Sì; ma il capo è lui, – replicava il primo.
Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona. Chi occupava un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d’ignoranza, esser detto l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.
– Scellerati! – esclamava un altro: – si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.
– Pane eh? – diceva uno che cercava d’andar in fretta: – sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia.
Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.
“Questa poi non è una bella cosa”, disse Renzo tra sé: “se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?”
Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: – largo, largo, – passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. “Cos’è quest’altra storia?” pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c’erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d’osservar gli avvenimenti non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione.
L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. – Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!
Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n’era uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò caro.
Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: – io vo; tu, vai? vengo; andiamo, – si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso.
Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: – avanti, avanti -. C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: – c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco -. Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. – Dal vicario! dal vicario! – è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.

CAPITOLO XIII

Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco, e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta.
– Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!
Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta… Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza.
Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.
I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all’estremità della folla. L’ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli.
Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.
– Oibò! vergogna! – scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. – Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!
– Ah cane! ah traditor della patria! – gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. – Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dàlli, dàlli! – Cento voci si spargono all’intorno. – Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dàlli, dàlli!
Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un – largo, largo, – che si sentì gridar lì vicino: – largo! è qui l’aiuto: largo, ohe!
Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: – animo! andiamo! – La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura.
Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: – Ferrer! Ferrer! – Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia.
– È qui Ferrer! – Non è vero, non è vero! – Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. – No, no! – E qui, è qui in carrozza. – Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! – Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. – No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! – Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario!
E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano.
In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata.
Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.
Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi.
I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. – Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer! – E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s’impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il vicario, – per andar subito… in prigione: ehm, avete inteso?
– È quel Ferrer che aiuta a far le gride? – domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale.
– Già: il gran cancelliere – gli fu risposto.
– È un galantuomo, n’è vero?
– Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.
Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza.
Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabili e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzlo di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S’aiutava dunque co’ gesti, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano le sue parole: – pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia -. Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: “por mi vida’ que de gente!” – Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane!
– Sì; pane, pane, – rispondeva Ferrer: – abbondanza; lo prometto io, – e metteva la mano al petto.
– Un po’ di luogo, – aggiungeva subito: – vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita: – e soggiungeva sottovoce: – si es culpable-. Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: – adelante’ Pedro’ si puedes.
Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco. – Di grazia, – diceva anche lui, – signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare.
Intanto i benevoli più attivi s’adopravano a far fare il luogo chiesto così gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: – in là, via, un po’ di luogo, signori -; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della carrozza, perché potesse passare senza arrotar piedi, né ammaccar mostacci; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge d’Antonio Ferrer.
Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; – venite pure avanti, – diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. – Adelante, presto, con juicio, – gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer.
La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici; ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettìo d’un fuoco artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta la strada. – Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato… si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asi es… così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos: non si facciano male, signori. Pedro’ adelante con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Cosa? – domandava poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo sportello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevere il “cosa?” era stato tirato indietro da uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari.
Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere.
Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva insieme. Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e scese sul predellino.
La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: – pane e giustizia -; e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d’aprire, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il desideratissimo ospite. – Presto, presto, – diceva lui: – aprite bene, ch’io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate venire addosso… per l’amor del cielo! Serbate un po’ di largo per tra poco. Ehi! ehi! signori, un momento, – diceva poi ancora a quelli di dentro: – adagio con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! – Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita.
Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto.
– Presto, presto, – diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno ansanti, gridando: – sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!
– Presto, presto, – ripeteva Ferrer: – dov’è questo benedett’uomo?
Il vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: – sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto.
– Venga usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto -. Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: “aqui està el busilis; Dios nos valga!”
La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni.
La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto ingegnati a preparare e a mantener come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza poté, questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella.
Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sé tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. – Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. E troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. Anch’io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male… si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera.
Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: – beso a usted las manos-: parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perché l’ufiziale non intendeva il latino.
A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: – ohe! ohe! – senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello.
– Levantese’ levantese; estàmos ya fuera, – disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: – ah! – esclamò, battendo la mano sulla sua zucca monda, – que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe. – Ah! per me, non voglio più impicciarmene, – diceva il vicario: – me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale.
– Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad, – rispose gravemente il gran cancelliere.
– Sua maestà non vorrà la mia morte, – replicava il vicario: – in una grotta, in una grotta; lontano da costoro.
Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi.

CAPITOLO XIV

La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s’allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d’amici, per ciarlare de’ gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s’andava facendo dall’altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d’una fine così fredda e così imperfetta d’un così grand’apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch’era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All’arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n’andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a’ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c’eran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: – non abbiate paura, che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo -; chi più stizzosamente mormorava che non s’eran fatte le cose a dovere, ch’era un inganno, e ch’era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d’un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c’era stato bisogno d’aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file de’ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un po’ di strada con la folla, e n’uscì, alla prima cantonata, per respirare anche lui un po’ liberamente. Fatto ch’ebbe pochi passi al largo, in mezzo all’agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra, cercando un’insegna d’osteria; giacché, per andare al convento de’ cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, – signori miei! – gridò, in tono d’esordio: – devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s’è visto chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte.
– Pur troppo, – disse una voce.
– Lo dicevo io, – riprese Renzo: – già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una grida con tanto d’arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d’ognuno c’era sotto il suo nome bell’e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co’ miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com’era l’intenzione di que’ tre signori, tra i quali c’era anche Ferrer, questo signor dottore, che m’aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s’ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s’è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l’arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?
Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall’esordio, una gran parte de’ radunati, sospeso ogni altro discorso, s’eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d’applausi, di – bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, – fu come la risposta dell’udienza. Non mancaron però i critici. – Eh sì, – diceva uno: – dar retta a’ montanari: son tutti avvocati -; e se ne andava. – Ora, – mormorava un altro, – ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non s’avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi -. Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l’altra. – A rivederci a domani. – Dove? – Sulla piazza del duomo. – Va bene. – Va bene. – E qualcosa si farà. – E qualcosa si farà.
– Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo? – disse Renzo.
– Son qui io a servirvi, quel bravo giovine, – disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. – Conosco appunto un’osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.
– Qui vicino? – domandò Renzo. – Poco distante, – rispose colui.
La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
– Di che cosa? – diceva colui: – una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? – E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un’altra domanda. – Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?
– Vengo, – rispose Renzo, – fino, fino da Lecco.
– Fin da Lecco? Di Lecco siete?
– Di Lecco… cioè del territorio.
– Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da’ vostri discorsi, ve n’hanno fatte delle grosse.
– Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po’ di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma… basta, qualche giorno si saprà; e allora… Ma qui vedo un’insegna d’osteria; e, in fede mia, non ho voglia d’andar più lontano.
– No, no! venite dov’ho detto io, che c’è poco, – disse la guida: – qui non istareste bene.
– Eh, sì; – rispose il giovine: – non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l’uno e l’altro. Alla provvidenza! – Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. – Bene; vi condurrò qui, giacché vi piace così, – disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
– Non occorre che v’incomodiate di più, – rispose Renzo. – Però, – soggiunse, – se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.
– Accetterò le vostre grazie, – rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s’accostò all’uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v’entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: “noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private”. Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida, “maledetto!” disse tra sé: “che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!” Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: “non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò”. Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
– Cosa comandan questi signori? – disse ad alta voce.
– Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero, – disse Renzo: – e poi un boccone -. Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un – ah! – sonoro, come se volesse dire: fa bene un po’ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l’ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l’oste col vino. Il compagno s’era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescé subito da bere, dicendo: per bagnar le labbra -. E riempito l’altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
– Cosa mi darete da mangiare? – disse poi all’oste.
– Ho dello stufato: vi piace? – disse questo.
– Sì, bravo; dello stufato.
– Sarete servito, – disse l’oste a Renzo; e al garzone: – servite questo forestiero -. E s’avviò verso il cammino. – Ma… – riprese poi, tornando verso Renzo: – ma pane, non ce n’ho in questa giornata.
– Al pane, – disse Renzo, ad alta voce e ridendo, – ci ha pensato la provvidenza -. E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: – ecco il pane della provvidenza!
All’esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: – viva il pane a buon mercato!
– A buon mercato? – disse Renzo: – gratis et amore.
– Meglio, meglio.
– Ma, – soggiunse subito Renzo, – non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch’io l’abbia, come si suol dire, sgraffignato. L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.
– Bravo! bravo! – gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de’ quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
– Credono ch’io canzoni; ma l’è proprio così, – disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: – vedete come l’hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n’era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han l’ossa un po’ tenere, saranno stati freschi -. E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: – da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. S’è fatto un gran gridare!
– Preparate un buon letto a questo bravo giovine, – disse la guida: – perché ha intenzione di dormir qui.
– Volete dormir qui? – domandò l’oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
– Sicuro, – rispose Renzo: – un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.
– Oh, in quanto a questo! – disse l’oste: andò al banco, ch’era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell’altra.
– Cosa vuol dir questo? – esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: – è il lenzolo di bucato, codesto?
L’oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: – fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria.
– Cosa? – disse Renzo: – cosa c’entrano codeste storie col letto?
– Io fo il mio dovere, – disse l’oste, guardando in viso alla guida: – noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi… quanto tempo ha di fermarsi in questa città… Son parole della grida.
Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d’ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: – ah ah! avete la grida! E io fo conto d’esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.
– Dico davvero, – disse l’oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
– Ah! ecco! – esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l’altra mano, con un dito teso, verso la grida: – ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo -. (In cima alle gride si metteva allora l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola). – Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don… basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d’altri furfanti: perché se fosse solo… – e qui finì la frase con un gesto: – se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.
L’oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: – ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest’imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perché questo è fesso -. Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: – senti, senti, oste, come crocchia.
Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l’attenzione di quelli che gli stavan d’intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
– Cosa devo fare? – disse l’oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui.
– Via, via, – gridaron molti di que’ compagnoni: – ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova Oggi, legge nuova. In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all’oste un’occhiata di rimprovero, per quell’interrogazione troppo scoperta, disse: – lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene.
– Ho fatto il mio dovere, – disse l’oste, forte; e poi tra se: “ora ho le spalle al muro”. E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
– Porta del medesimo, – disse Renzo: – che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.
– Del medesimo, – disse l’oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino. “Altro che lepre!” pensava, istoriando di nuovo la cenere: “e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi affogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie”.
Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. – Bravi amici! – disse: – ora vedo proprio che i galantuomini si dànno la mano, e si sostengono -. Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, – gran cosa, – esclamò, – che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!
– Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? – disse ridendo uno di que’ giocatori, che vinceva.
– Sentiamo un poco, – rispose Renzo.
– La ragione è questa, – disse colui: – che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano.
Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.
– To’, – disse Renzo: – è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch’io, e qualche volta ne dico delle curiose… ma quando le cose vanno bene.
Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perché, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?
– Ma la ragione giusta la dirò io, – soggiunse Renzo: – è perché la penna la tengon loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po’ di… so io quel che voglio dire… – e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte con la punta dell’indice; – e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dell’usanze! Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia.
Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se n’andavano; altra gente arrivava; l’oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva l’ora d’andarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d’aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. – Eh! se comandassi io, – disse, – lo troverei il verso di fare andar le cose bene.
– Come vorreste fare? – domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po’ la bocca, come per star più attento.
– Come vorrei fare? – disse colui: – vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per i ricchi.
– Ah! così va bene, – disse Renzo.
– Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per… il vostro nome?
– Lorenzo Tramaglino, – disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone.
– Benissimo, – disse lo sconosciuto: – ma avete moglie e figliuoli?
– Dovrei bene… figliuoli no… troppo presto… ma la moglie… se il mondo andasse come dovrebbe andare…
– Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.
– È giusto; ma se presto, come spero… e con l’aiuto di Dio.. Basta; quando avessi moglie anch’io?
– Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v’ho detto; sempre in ragion delle bocche, – disse lo sconosciuto, alzandosi.
– Così va bene, – gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: – e perché non la fanno una legge così?
– Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perché penso che la moglie e i figliuoli m’aspetteranno da un pezzo.
– Un altro gocciolino, un altro gocciolino, – gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. – Un altro gocciolino: non mi fate quest’affronto.
Ma l’amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri, disse di nuovo: – buona notte, – e se n’andò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare, disse: – ecco, l’avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso, proprio da amico; ma non l’ha voluto. Alle volte, la gente ha dell’idee curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l’ho fatto vedere. Ora, giacché la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male -. Così detto, lo prese, e lo votò in un sorso.
– Ho inteso, – disse il garzone, andandosene.
– Ah! avete inteso anche voi, – riprese Renzo: – dunque è vero. Quando le ragioni son giuste…!
Qui è necessario tutto l’amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d’imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch’era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que’ pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’ esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allontani, se ne risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola.
Comunque sia, quando que’ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, l’uno in giù e l’altre in su, senza misura né regola: e, al punto a cui l’abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e s’eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che s’era presentato vivo e risoluto alla sua mente, s’annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que’ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica.
Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato.
– Ah oste, oste! – ricominciò, accompagnandolo con l’occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata: – oste che tu sei! Non posso mandarla giù… quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio…! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto… di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figliuoli… Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone… per la ragione… Ridono eh? Ho un po’ di brio, sì… ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n’è vero? dico bene? Guarda un po’ se que’ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino.
– Tutta gente che beve acqua, – disse un vicino di Renzo.
– Vogliono stare in sé, – soggiunse un altro, – per poter dir le bugie a dovere.
– Ah! – gridò Renzo: – ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d’un quattrino? E quel cane assassino di don…? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr… so io, son due galantuomini; ma ce n’è pochi de’ galantuomini. I vecchi peggio de’ giovani; e i giovani… peggio ancora de’ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma… ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!… Eppure, anche Ferrer… qualche parolina in latino… siés baraòs trapolorum… Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!… Là ci volevano que’ galantuomini… quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve’, allora. Tenerlo lì quel signor curato… So io a chi penso!
A questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi n’era l’oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevan cominciato a prendersi spasso dell’eloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n’era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l’uno or l’altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno d’averselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt’altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.

<. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.

 

CAPITOLO XV

L’oste, vedendo che il gioco andava in lungo, s’era accostato a Renzo; e pregando, con buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l’andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co’ buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po’ più distintamente il bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po’ di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n’era andato: a un di presso come l’ultimo moccolo rimasto acceso d’un’illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d’alzarsi; sospirò, barcollò; alla terza, sorretto dall’oste, si rizzò. Quello, reggendolo tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un lume, con l’altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l’uscio di scala. Lì Renzo, al chiasso de’ saluti che coloro gli urlavan dietro, si voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e, con l’altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo nell’aria certi saluti, a guisa d’un nodo di Salomone.
– Andiamo a letto, a letto, – disse l’oste, strascicandolo; gli fece imboccar l’uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l’aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste, con due occhietti che ora scintillavan più che mai, ora s’eclissavano, come due lucciole; cercò d’equilibrarsi sulle gambe; e stese la mano al viso dell’oste, per prendergli il ganascino, in segno d’amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. – Bravo oste! – gli riuscì però di dire: – ora vedo che sei un galantuomo: questa è un’opera buona, dare un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m’hai fatta, sul nome e cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch’io son furbo la mia parte…
L’oste, il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo. – Figliuolo caro, – disse, con una voce e con un fare tutto gentile: – non l’ho fatto per seccarvi, né per sapere i fatti vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e… Di che si tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a me: via; qui tra noi, a quattr’occhi, facciam le nostre cose; ditemi il vostro nome, e… e poi andate a letto col cuor quieto.
– Ah birbone! – esclamò Renzo: – mariolo! tu mi torni ancora in campo con quell’infamità del nome, cognome e negozio!
– Sta’ zitto, buffone; va’ a letto, – diceva l’oste.
Ma Renzo continuava più forte: – ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta, aspetta, che t’accomodo io -. E voltando la testa verso la scaletta, cominciava a urlare più forte ancora: – amici! l’oste è della…
– Ho detto per celia, – gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto: – per celia; non hai inteso che ho detto per celia?
– Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia… Son proprio celie -. E cadde bocconi sul letto.
– Animo; spogliatevi; presto, – disse l’oste, e al consiglio aggiunse l’aiuto; che ce n’era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle), l’oste l’agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c’era il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto a fare i conti con tutt’altri
E che con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di concluder quest’altro affare.
– Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è vero? – disse.
– Buon figliuolo, galantuomo, – rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potuto levare.
– Bene, – replicò l’oste: – saldate ora dunque quel poco conticino, perché domani io devo uscire per certi miei affari…
– Quest’è giusto, – disse Renzo. – Son furbo, ma galantuomo… Ma i danari? Andare a cercare i danari ora!
– Eccoli qui, – disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi.
– Dammi una mano, ch’io possa finir di spogliarmi, oste, – disse Renzo. – Lo vedo anch’io, ve’, che ho addosso un gran sonno.
L’oste gli diede l’aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli disse sgarbatamente – buona notte, – che già quello russava. Poi, per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell’atto a un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. – Pezzo d’asino! – disse nella sua mente al povero addormentato: – sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.
Così detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l’uscio a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l’ostessa; alla quale disse che lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a far le sue veci. – Bisogna ch’io vada fuori, in grazia d’un forestiero capitato qui, non so come diavolo, per mia disgrazia, – soggiunse; e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: – occhio a tutto; e sopra tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di tutti i colori. Basta, se qualche temerario…
– Oh! non sono una bambina, e so anch’io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire…
– Bene, bene; e badar che paghino; e tutti que’ discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perché, se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più grosse… Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire: vengo; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte. Io cercherò di tornare più presto che posso.
Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un’occhiata in giro, per veder se c’era novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un randello da un cantuccio, ricapitolò, con un’altra occhiata alla moglie, l’istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni, aveva ripreso, dentro di sé, il filo dell’apostrofe cominciata al letto del povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada.
“Testardo d’un montanaro!” Ché, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo, questa qualità si manifestava da sé, nelle parole, nella pronunzia, nell’aspetto e negli atti. “Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e dovevi venir tu sulla fine, a guastarmi l’uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio, per questa sera; e domattina t’avrei fatto intender la ragione. Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio!”
A ogni passo, l’oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sé: “eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c’è mancato poco che non m’hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una mia curiosità! Cosa m’importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a voler le cose a modo vostro. Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per ispenderli così bene; da esser applicati, per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all’arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie”.
A queste parole, l’oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.
Lì, come a tutti gli altri ufizi, c’era un gran da fare: per tutto s’attendeva a dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare i pretesti e l’ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite a adoprarla. S’accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S’ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedirono staffette a’ paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl’inquieti, con l’autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d’acqua vulneraria sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto l’oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come avete visto. Poté però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e patria, oltre cent’altre belle notizie congetturali; dimodoché, quando l’oste capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno a Renzo, ne sapevan già più di lui. Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo nome.
– Avete fatto il vostro dovere a informar la giustizia -; disse un notaio criminale, mettendo giu la penna, – ma già lo sapevamo.
“Bel segreto!” pensò l’oste: “ci vuole un gran talento!” – E sappiamo anche, – continuò il notaio, – quel riverito nome.
“Diavolo! il nome poi, com’hanno fatto?” pensò l’oste questa volta.
– Ma voi, – riprese l’altro, con volto serio, – voi non dite tutto sinceramente.
– Cosa devo dire di più?
– Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.
– Vien uno con un pane in tasca; so assai dov’è andato a prenderlo. Perché, a parlar come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.
– Già; sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?
– Cosa ho da provare io? io non c’entro: io fo l’oste.
– Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti contro l’arme di sua eccellenza.
– Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l’ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di domandargli il suo nome.
– Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.
– Come vuole vossignoria ch’io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che parlan tutti insieme? Io devo attendere a’ miei interessi, che sono un pover’uomo. E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e…
– Sì, sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il ruzzo. Cosa credete?
– Io non credo nulla.
– Che la canaglia sia diventata padrona di Milano?
– Oh giusto!
– Vedrete, vedrete.
– Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.
– Avete ancora molta gente in casa?
– Un visibilio.
– E quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a preparar tumulti per domani?
– Quel forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.
– Dunque avete molta gente… Basta; badate a non lasciarlo scappare.
“Che devo fare il birro io?” pensò l’oste; ma non disse né sì né no.
– Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, – riprese il notaio.
– Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla giustizia.
– E non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.
– Io? per carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste.
– La solita canzone: non avete mai altro da dire.
– Che ho da dire altro? La verità è una sola.
– Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato.
– Cosa ho da informare? io non so nulla; appena appena ho la testa da attendere ai fatti miei.
– Badate a non lasciarlo partire.
– Spero che l’illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria.
Allo spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett’ore, ed era ancora, poveretto! sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del letto gridava : – Lorenzo Tramaglino! – , lo fecero riscotere. Si risentì, ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto.
– Ah! avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino? – disse l’uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera avanti. – Animo dunque; levatevi, e venite con noi.
– Lorenzo Tramaglino! – disse Renzo Tramaglino: – cosa vuol dir questo? Cosa volete da me? Chi v’ha detto il mio nome?
– Meno ciarle, e fate presto, – disse uno de’ birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio.
– Ohe! che prepotenza è questa? – gridò Renzo, ritirando il braccio. – Oste! o l’oste!
– Lo portiam via in camicia? – disse ancora quel birro, voltandosi al notaio.
– Avete inteso? – disse questo a Renzo: – si farà così, se non vi levate subito subito, per venir con noi.
– E perché? – domandò Renzo.
– Il perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia.
– Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio…
– Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete andarvene per i fatti vostri.
– Mi lascino andare ora, – disse Renzo: – io non ho che far nulla con la giustizia.
– Orsù, finiamola! – disse un birro.
– Lo portiamo via davvero? – disse l’altro.
– Lorenzo Tramaglino! – disse il notaio.
– Come sa il mio nome, vossignoria?
– Fate il vostro dovere, – disse il notaio a’ birri; i quali misero subito le mani addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto.
– Eh! non toccate la carne d’un galantuomo, che…! Mi so vestir da me.
– Dunque vestitevi subito, – disse il notaio.
– Mi vesto, – rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e là i panni sparsi sul letto, come gli avanzi d’un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo: – ma io non ci voglio andare dal capitano di giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacché mi si fa quest’affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni.
– Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, – rispose il notaio. In altre circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d’una richiesta simile; ma non era momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d’una sollevazione non del tutto sedata, o princìpi d’una nuova: uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d’amore e d’accordo; giacché, se si fosse venuti a guerra aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi tre contr’uno. Perciò dava d’occhio a’ birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi, come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perché la giustizia avesse preso tant’animo, da venire a colpo sicuro, a metter le mani addosso a uno de’ buoni figliuoli che, il giorno avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti addormentati, poiché Renzo s’accorgeva anche lui d’un ronzìo crescente nella strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in lungo, e anche per tentare un colpo, disse: – vedo bene cos’è l’origine di tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un po’ allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta d’altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio nome. Chi diamine gliel ha detto?
– Bravo, figliuolo, bravo! – rispose il notaio, tutto manieroso: – vedo che avete giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che tant’altri. È la miglior maniera d’uscirne presto e bene: con codeste buone disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io, vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei. Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e poi io dirò… Lasciate fare a me… Basta; sbrigatevi, figliuolo.
– Ah! lei non può: intendo, – disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con de’ cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo spicciare.
– Passeremo dalla piazza del duomo? – domandò poi al notaio.
– Di dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà, – disse quello, rodendosi dentro di sé, di dover lasciar cadere in terra quella domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni. “Quando uno nasce disgraziato!” pensava. “Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po’ di respiro che s’avesse, così extra formam, accademicamente, in via di discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell’e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l’appunto capitare in un momento così angustiato. Eh! non c’è scampo”, continuava a pensare, tendendo gli orecchi, e piegando la testa all’indietro: “non c’è rimedio; e’ risica d’essere una giornata peggio di ieri”. Ciò che lo fece pensar così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non poté tenersi di non aprir l’impannata, per dare un’occhiatina. Vide ch’era un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l’impannata, e stette un momento in forse, se dovesse condur l’impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de’ due birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva. “Ma”, pensò subito, “mi si dirà che sono un buon a nulla, un pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere!”
Renzo era levato; i due satelliti gli stavano a’ fianchi. Il notaio accennò a costoro che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: – da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.
Anche Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra nelle tasche. – Ohe! – disse, guardando il notaio, con un viso molto significante: – qui c’era de’ soldi e una lettera. Signor mio!
– Vi sarà dato ogni cosa puntualmente, – disse il notaio, dopo adempite quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.
– No, no, no, – disse Renzo, tentennando il capo: – questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.
– Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto, – disse il notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra’ denti: – alla larga! bazzicate tanto co’ ladri, che avete un poco imparato il mestiere -. I birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli occhi, e diceva intanto tra sé: “se tu arrivi a metter piede dentro quella soglia, l’hai da pagar con usura, l’hai da pagare”.
Mentre Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un de’ birri, che s’avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi l’altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice: – e quest’oste benedetto dove s’è cacciato? – il notaio fa un altro cenno a’ birri; i quali afferrano, l’uno la destra, l’altro la sinistra del giovine, e in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po’ più che il giro d’un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con ciò aveva mezzo, non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi.
Renzo si divincola, grida: – che tradimento è questo? A un galantuomo…! – Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, – abbiate pazienza, – diceva: – fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di voi. Abbiate pazienza.
Mentre parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a’ legnetti. Renzo s’acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le morse, e esclamò: – pazienza!
– Bravo figliuolo! – disse il notaio: – questa è la vera maniera d’uscirne a bene. Cosa volete? è una seccatura; lo vedo anch’io; ma, portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacché vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s’avvede di quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un’ora voi siete in libertà: c’è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi parlerò io… Ve n’andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi altri, – continuò poi, voltandosi a’ birri, con un viso severo: – guardate bene di non fargli male, perché lo proteggo io: il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo, un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s’avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso -. E, con tono imperativo, e con sopracciglio minaccioso, concluse: – m’avete inteso -. Voltatosi poi a Renzo, col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: – giudizio; fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo -. E la comitiva s’avviò.
Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, né che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, né che avesse intenzion d’aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani, metteva innanzi que’ bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da approfittarne. Dimodoché tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario.
Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre un altro a fare una cosa per sé sospetta, fosse andato suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di dargli un parere disinteressato, da amico. Ma è una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe fare per levarli d’impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que’ ritrovati maestri, quelle belle malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza d’animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l’applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta, all’impazzata, senza garbo né grazia. Di maniera che a uno che li veda ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l’uomo che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sé, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a’ furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d’esser sempre i più forti, che è la più sicura.
Renzo adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non c’era però concorso straordinario; e benché sul viso di più d’un passeggiero si potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c’era.
– Giudizio, giudizio! – gli susurrava il notaio dietro le spalle: – il vostro onore; l’onore, figliuolo -. Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con visi accesi, sentì che parlavan d’un forno, di farina nascosta, di giustizia, cominciò anche a far loro de’ cenni col viso, e a tossire in quel modo che indica tutt’altro che un raffreddore. Quelli guardarono più attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglìo, tornavano indietro, e facevan coda.
– Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione, – continuava a susurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.
– Ahi! ahi! ahi! – grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. – È un malvivente, – bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: – è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia -. Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, “se non m’aiuto ora, pensò, mio danno”. E subito alzò la voce: – figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli!
Un mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più. Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: – cos’è stato?
– Uh corvaccio! – rispose colui. – Corvaccio! corvaccio! – risonò all’intorno. Alle grida s’aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in quel momento, d’esser fuori di quel serra serra.

CAPITOLO XVI

– Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa; di qui, di là, – si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una speranza d’uscir da quell’unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. “Perché”, aveva pensato, “il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono”. E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri alle spalle. “Perché, se posso essere uccel di bosco”, aveva anche pensato, “non voglio diventare uccel di gabbia”. Aveva dunque disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de’ suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su’ casi suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così obbligante, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche altro di quel conio; e risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, né il perché la domandasse. Disse a’ suoi liberatori: – grazie tante, figliuoli: siate benedetti, – e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sé era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant’è vero che all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente uno che veniva in fretta, pensò che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe subito, senz’altre chiacchiere; e sentendolo parlar da sé, giudicò che dovesse essere un uomo sincero. Gli s’accostò, e disse: – di grazia, quel signore, da che parte si va per andare a Bergamo?
– Per andare a Bergamo? Da porta orientale.
– Grazie tante; e per andare a porta orientale?
– Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi…
– Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito -. E diviato s’incamminò dalla parte che gli era stata indicata. L’altro gli guardò dietro un momento, e, accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse tra sé: “o n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui”.
Renzo arriva sulla piazza del duomo; l’attraversa, passa accanto a un mucchio di cenere e di carboni spenti, e riconosce gli avanzi del falò di cui era stato spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il forno delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de’ cappuccini; dà un’occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice tra sé, sospirando: “m’aveva però dato un buon parere quel frate di ieri: che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po’ di bene”.
Qui, essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva passare, e vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la fantasia un po’ riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi motivi), provò una certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo d’asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato; fu tentato fortemente d’entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò: “uccel di bosco, fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte”. Si voltò, per vedere se mai venissero da quella parte: non vide né quelli, né altri che paressero occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che volevan sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare; e adagio adagio, fischiando in semitono, arriva alla porta.
C’era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, v’accorrono, come i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro.
Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Bergamo; questo gli basta per ora. Ogni tanto, si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e strofinando or l’uno or l’altro polso, ancora un po’ indolenziti, e segnati in giro d’una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si rammentava bene d’averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell’esibizioni che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi certezza. Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva dir altro che d’essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il poverino si smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de’ galantuomini; e scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de’ suoi affari: che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far sull’avvenire un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria, eran tutti malinconici.
Ma ben presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sé non ne poteva uscire. Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece.
– Siete fuor di strada, – gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale.
Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. Questa, in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: ché la voce n’era arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse incamminato.
– Devo andare in molti luoghi, – rispose: – e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano… Come si chiama? – “Qualcheduno ce ne sarà”, pensava intanto tra sé.
– Gorgonzola, volete dire, – rispose la vecchia.
– Gorgonzola! – ripeté Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. – È molto lontano di qui? – riprese poi.
– Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.
– E credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove!
– A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta -. E glielo nominò.
– Va bene; – disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera.
Già cammin facendo, aveva disegnato di far lì un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più sostanzioso. Ilcorpo avrebbe anche gradito un po’ di letto; ma prima che contentarlo in questo, Renzo l’avrebbe lasciato cader rifinito sulla strada. Il suo proposito era d’informarsi all’osteria, della distanza dell’Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che mettesse là, e di rincamminarsi da quella parte, subito dopo essersi rinfrescato. Nato e cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un’idea precisa; ma, allora come allora, l’affar più urgente era di passarlo, dovunque si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettessero: e d’aspettar poi l’alba, in un campo, in un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un’osteria.
Fatti alcuni passi in Gorgonzola, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. – Vi prego di far presto, soggiunse: – perché ho bisogno di rimettermi subito in istrada -. E questo lo disse, non solo perché era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio… Alla larga!
L’oste rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: il posto de’ vergognosi.
C’erano in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una sollevazione, né soggiogata né vittoriosa, sospesa più che terminata dalla notte; una cosa tronca, la fine d’un atto piuttosto che d’un dramma. Un di coloro si staccò dalla brigata, s’accostò al soprarrivato, e gli domandò se veniva da Milano.
– Io? – disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere.
– Voi, se la domanda è lecita.
Renzo, tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono inarticolato, disse: – Milano, da quel che ho sentito dire… non dev’essere un luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necessità.
– Continua dunque anche oggi il fracasso? – domandò, con più istanza, il curioso.
– Bisognerebbe esser là, per saperlo, – disse Renzo.
– Ma voi, non venite da Milano?
– Vengo da Liscate, – rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perché c’era passato; e il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola.
– Oh! – disse l’amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma pazienza. – E a Liscate, – soggiunse, – non si sapeva niente di Milano?
– Potrebb’essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa, – rispose il montanaro: – ma io non ho sentito dir nulla.
E queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire: ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l’oste venne a mettere in tavola.
– Quanto c’è di qui all’Adda? – gli disse Renzo, mezzo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.
– All’Adda, per passare? – disse l’oste.
– Cioè… sì… all’Adda.
– Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?
– Dove si sia… Domando così per curiosità.
– Eh, volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sé.
– Va bene: e quanto c’è?
– Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia.
– Sei miglia! non credevo tanto, – disse Renzo. – E già, – e già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare?
– Ce n’è sicuro, – rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: – il vino è sincero?
Come l’oro, – disse l’oste: – domandatene pure a tutta la gente del paese e del contorno, che se n’intende: e poi, lo sentirete -. E così dicendo, tornò verso la brigata.
“Maledetti gli osti!” esclamò Renzo tra sé: “più ne conosco, peggio li trovo”. Non ostante, si mise a mangiare con grand’appetito, stando, nello stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand’avvenimento nel quale egli aveva avuta non piccola parte, e d’osservare specialmente se, tra que’ parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse fidarsi di domandar la strada, senza timore d’esser messo alle strette, e forzato a ciarlare de’ fatti suoi.
– Ma! – diceva uno: – questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa.
– Mi pento di non esser andato a Milano stamattina, – diceva un altro.
– Se vai domani, vengo anch’io, – disse un terzo; poi un altro, poi un altro.
– Quel che vorrei sapere, – riprese il primo, – è se que’ signori di Milano penseranno anche alla povera gente di campagna, o se faranno far la legge buona solamente per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: gli altri, come se non ci fossero.
– La bocca l’abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione, – disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era avanzata: – e quando la cosa sia incamminata… – Ma credette meglio di non finir la frase.
– Del grano nascosto, non ce n’è solamente in Milano, – cominciava un altro, con un’aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti all’uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno incontro. Era un mercante di Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo, per i suoi traffichi, era solito passar la notte in quell’osteria; e siccome ci trovava quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s’affollano intorno; uno prende la briglia, un altro la staffa. – Ben arrivato, ben arrivato!
– Ben trovati.
– Avete fatto buon viaggio?
– Bonissimo; e voi altri, come state?
– Bene, bene. Che nuove ci portate di Milano?
– Ah! ecco quelli delle novità, – disse il mercante, smontando, e lasciando il cavallo in mano d’un garzone. – E poi, e poi, continuò, entrando con la compagnia, – a quest’ora le saprete forse meglio di me.
– Non sappiamo nulla, davvero, – disse più d’uno, mettendosi la mano al petto.
– Possibile? – disse il mercante. – Dunque ne sentirete delle belle… o delle brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino, e il mio solito boccone, subito; perché voglio andare a letto presto, per partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l’ora del desinare. E voi altri, – continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava Renzo, zitto e attento, – voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ieri?
– Di ieri sì.
– Vedete dunque, – riprese il mercante, – se le sapete le novità. Lo dicevo io che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano…
– Ma oggi, com’è andata oggi?
– Ah oggi. Non sapete niente d’oggi?
– Niente affatto: non è passato nessuno.
– Dunque lasciatemi bagnar le labbra; e poi vi dirò le cose d’oggi. Sentirete -. Empì il bicchiere, lo prese con una mano, poi con le prime due dita dell’altra sollevò i baffi, poi si lisciò la barba, bevette, e riprese: – oggi, amici cari, ci mancò poco, che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E non mi par quasi vero d’esser qui a chiacchierar con voi altri; perché avevo già messo da parte ogni pensiero di viaggio, per restare a guardar la mia povera bottega.
– Che diavolo c’era? – disse uno degli ascoltanti.
– Proprio il diavolo: sentirete -. E trinciando la pietanza che gli era stata messa davanti, e poi mangiando, continuò il suo racconto. I compagni, ritti di qua e di là della tavola, lo stavano a sentire, con la bocca aperta; Renzo, al suo posto, senza che paresse suo fatto, stava attento, forse più di tutti, masticando adagio adagio gli ultimi suoi bocconi.
– Stamattina dunque que’ birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si trovarono a’ posti convenuti (già c’era un’intelligenza: tutte cose preparate); si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girare di strada in strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va avanti. Quando parve loro d’esser gente abbastanza, s’avviarono verso la casa del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; e io lo posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della servitù. S’incamminaron dunque verso quella casa: bisognava veder che canaglia, che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che… i giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il sacco; ma… – E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la punta del pollice alla punta del naso.
– Ma? – dissero forse tutti gli ascoltatori.
– Ma, – continuò il mercante, – trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e, dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparato… Cosa avreste fatto voi altri?
– Tornare indietro.
– Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che fin da ieri, avevan voluto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c’era chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch’io: in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra.
– E i micheletti?
– I micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare e portar la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c’era buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta venne fuori.
– Con che cosa?
– Di fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa insieme. Detto fatto…
– Ci han dato fuoco?
– Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un’ispirazione dal cielo. Corse su nelle stanze, cercò d’un Crocifisso, lo trovò, l’attaccò all’archetto d’una finestra, prese da capo d’un letto due candele benedette, le accese, e le mise sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In un Milano, bisogna dirla, c’è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sé. La più parte, voglio dire; c’era bensì de’ diavoli che, per rubare, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere, dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ora chi arrivò all’improvviso. Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale; e monsignor Mazenta, arciprete, comincio a predicare da una parte, e monsignor Settala, penitenziere, da un’altra, e gli altri anche loro: ma, brava gente! ma cosa volete fare? ma è questo l’esempio che date a’ vostri figliuoli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma andate a vedere, che c’è l’avviso sulle cantonate.
– Era vero?
– Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir delle fandonie?
– E la gente cosa fece?
– A poco a poco se n’andarono; corsero alle cantonate; e, chi sapeva leggere, la c’era proprio la meta. Indovinate un poco: un pane d’ott’once, per un soldo.
– Che bazza!
– La vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata a male, tra ieri e stamattina? Da mantenerne il ducato per due mesi.
– E per fuori di Milano, non s’è fatta nessuna legge buona?
– Quel che s’è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che vi dire: per voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto, i fracassi son finiti. Non v’ho detto tutto; ora viene il buono.
– Cosa c’è ancora?
– C’è che, ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti; e subito s’è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d’esser nel numero. Milano, quand’io ne sono uscito, pareva un convento di frati.
– Gl’impiccheranno poi davvero?
– Eccome! e presto, – rispose il mercante.
– E la gente cosa farà? – domandò ancora colui che aveva fatta l’altra domanda.
– La gente? anderà a vedere, – disse il mercante. – Avevan tanta voglia di veder morire un cristiano all’aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al signor vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con tutte le formalità, accompagnati da’ cappuccini, e da’ confratelli della buona morte; e gente che se l’è meritato. È una provvidenza, vedete; era una cosa necessaria. Cominciavan già a prender il vizio d’entrar nelle botteghe, e di servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano… Pensate se coloro volevano smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi so dir io che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro.
– Davvero, – disse uno degli ascoltatori. – Davvero, – ripeteron gli altri, a una voce.
– E, – continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, – l’era ordita da un pezzo: c’era una lega, sapete?
– C’era una lega?
– C’era una lega. Tutte cabale ordite da’ navarrini, da quel cardinale là di Francia, sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto, tende a far qualche tiro a Milano; perché vede bene, il furbo, che qui sta la forza del re.
– Già.
– Ne volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano in giro facce, che in Milano non s’eran mai vedute. Anzi mi dimenticavo di dirvene una che m’è stata data per certa. La giustizia aveva acchiappato uno in un’osteria… – Renzo, il quale non perdeva un ette di quel discorso, al tocco di questa corda, si sentì venir freddo, e diede un guizzo, prima che potesse pensare a contenersi. Nessuno però se n’avvide; e il dicitore, senza interrompere il filo del racconto, seguitò: – uno che non si sa bene ancora da che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, né che razza d’uomo si fosse; ma certo era uno de’ capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il diavolo; e poi, non contento di questo, s’era messo a predicare, e a proporre, così una galanteria, che s’ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia, che l’aveva appostato, gli mise l’unghie addosso; gli trovarono un fascio di lettere; e lo menavano in gabbia; ma che? i suoi compagni, che facevan la ronda intorno all’osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono, il manigoldo.
– E cosa n’è stato?
– Non si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha né casa né tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finché il diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano; perché, quando la pera è matura, convien che caschi. Per ora si sa di sicuro che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c’è descritta tutta la cabala; e si dice che n’anderà di mezzo molta gente. Peggio per loro; che hanno messo a soqquadro mezzo Milano, e volevano anche far peggio. Dicono che i fornai son birboni. Lo so anch’io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia. C’è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi comanda a tener buone spie, e andarlo a disotterrare, e mandare anche gl’incettatori a dar calci all’aria, in compagnia de’ fornai. E se chi comanda non fa nulla, tocca alla città a ricorrere; e se non dànno retta alla prima, ricorrere ancora; ché a forza di ricorrere s’ottiene; e non metter su un’usanza così scellerata d’entrar nelle botteghe e ne’ fondachi, a prender la roba a man salva.
A Renzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill’anni d’esser fuori e lontano da quell’osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva detto a sé stesso: andiamo, andiamo. Ma quella paura di dar sospetto, cresciuta allora oltremodo, e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, l’aveva tenuto sempre inchiodato sulla panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone doveva poi finire di parlar di lui; e concluse tra sé, di moversi, appena sentisse attaccare qualche altro discorso.
– E per questo, – disse uno della brigata, – io che so come vanno queste faccende, e che ne’ tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere dalla curiosità, e son rimasto a casa mia.
– E io, mi son mosso? – disse un altro.
– Io? – soggiunse un terzo: – se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.
A questo punto, l’oste, ch’era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare, quantunque l’acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò diritto all’uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s’incamminò dalla parte opposta a quella per cui era venuto.

CAPITOLO XVII

Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri erano in campo per dargli la caccia! quali ordini erano stati spediti di frugar ne’ paesi, nell’osterie, per le strade! Pensava bensì che finalmente i birri che lo conoscevano, eran due soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte; ma gli tornavano in mente certe storie che aveva sentite raccontare, di fuggitivi colti e scoperti per istrane combinazioni, riconosciuti all’andare, all’aria sospettosa, ad altri segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque, nel momento che usciva di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi, diminuissero sempre più que’ pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la strada maestra, e si propose d’entrar nella prima viottola che gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada. “Ha detto sei miglia, colui, – pensava: – se andando fuor di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare, passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione”.
Ben presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v’entrò. A quell’ora, se si fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada lo conduceva; e pensava.
“Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a viso a viso con quel mercante, di là dall’Adda (ah quando l’avrò passata quest’Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov’abbia pescate tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è andata così e così, e che il diavolo ch’io ho fatto, è stato d’aiutar Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que’ birboni che, a sentir voi, erano i miei amici, perché, in un certo momento, io dissi una parola da buon cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, intanto che voi stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l’ho mai né visto né conosciuto. Aspetta che mi mova un’altra volta, per aiutar signori… È vero che bisogna farlo per l’anima: son prossimo anche loro. E quel gran fascio di lettere, dove c’era tutta la cabala, e che adesso è in mano della giustizia, come voi sapete di certo; scommettiamo che ve lo fo comparir qui, senza l’aiuto del diavolo? Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo qui… Una lettera sola?… Sì signore, una lettera sola; e questa lettera, se lo volete sapere, l’ha scritta un religioso che vi può insegnar la dottrina, quando si sia; un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra; e è scritta, questa lettera, come vedete, a un altro religioso, un uomo anche lui… Vedete ora quali sono i furfanti miei amici. E imparate a parlare un’altra volta; principalmente quando si tratta del prossimo”.
Ma dopo qualche tempo, questi pensieri ed altri simili cessarono affatto: le circostanze presenti occupavan tutte le facoltà del povero pellegrino. La paura d’essere inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio in pieno giorno, non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan questo molto più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s’era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell’andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.
Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l’aria, lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle, il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di picchiare, e di chieder ricovero. E forse, anche senza i cani, non ci si sarebbe risolto. “Chi è là? – pensava: – cosa volete a quest’ora? Come siete venuto qui? Fatevi conoscere. Non c’è osterie da alloggiare? Ecco, andandomi bene, quel che mi diranno, se picchio: quand’anche non ci dorma qualche pauroso che, a buon conto, si metta a gridare: aiuto! al ladro! Bisogna aver subito qualcosa di chiaro da rispondere: e cosa ho da rispondere io? Chi sente un rumore la notte, non gli viene in testa altro che ladri, malviventi, trappole: non si pensa mai che un galantuomo possa trovarsi in istrada di notte, se non è un cavaliere in carrozza”. Allora serbava quel partito all’estrema necessità, e tirava innanzi, con la speranza di scoprire almeno l’Adda, se non passarla, in quella notte; e di non dover andarne alla cerca, di giorno chiaro.
Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più né un gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, dell’orazioni per i morti.
A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore.
Arrivò in pochi momenti all’estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un po’ sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse batter de’ remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa di meno dell’Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che l’Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza.
Perciò si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere. Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l’aurora, per forse sei ore che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così, c’era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già avevano fatto più del loro dovere. Gli venne in mente d’aver veduto, in uno de’ campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini del milanese usan, l’estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto, senza chiave né catenaccio; Renzo l’aprì, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamac; ma non si curò di salirvi. Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe ben saporita.
Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi s’inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l’assistenza che aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d’essere andato a dormire come un cane, e peggio. “E per questo, – soggiunse poi tra sé; appoggiando le mani sulla paglia, e d’inginocchioni mettendosi a giacere: – per questo, m’è toccata, la mattina, quella bella svegliata”. Raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all’intorno, e se l’accomodò addosso, facendosene, alla meglio, una specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l’intenzione di dormire un bel sonno, parendogli d’averlo comprato anche più caro del dovere.
Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.
Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare sopra di esse il pensiero, era tutt’altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate, sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe intemperanza, del bel caso che aveva fatto de’ paterni consigli di lui; e contemplando l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come l’avrebbe potuta dimenticare? Quell’Agnese, che l’aveva scelto, che l’aveva già considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever da lui il titolo di madre, n’aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata co’ fatti la premura. Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene che voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga, incerta dell’avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte, povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie di giorni! “Quel che Dio vuole, – rispondeva ai pensieri che gli davan più noia: – quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!”
Tra questi pensieri, e disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’era costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico misurava, perché, ogni mezz’ora, sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta.
Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva che facesse da sé, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se c’era nessuno. E non vedendo nessuno, cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito, e prese per quello.
Il cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d’un bigio ceruleo, che, giù giù verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù, all’orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s’andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse trovato lì andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammirato quell’albeggiare così diverso da quello ch’era solito vedere ne’ suoi monti; ma badava alla sua strada, e camminava a passi lunghi, per riscaldarsi, e per arrivar presto. Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco, guardando in qua e in là, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con l’intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza, ma, senza avvedersene, in una maniera mezzo supplichevole, gli accenna che approdi. Il pescatore gira uno sguardo lungo la riva, guarda attentamente lungo l’acqua che viene, si volta a guardare indietro, lungo l’acqua che va, e poi dirizza la prora verso Renzo, e approda. Renzo che stava sull’orlo della riva, quasi con un piede nell’acqua, afferra la punta del battello, ci salta dentro, e dice: – mi fareste il servizio, col pagare, di tragittarmi di là? – Il pescatore l’aveva indovinato, e già voltava da quella parte. Renzo, vedendo sul fondo della barca un altro remo, si china, e l’afferra.
– Adagio, adagio, – disse il padrone; ma nel veder poi con che garbo il giovine aveva preso lo strumento, e si disponeva a maneggiarlo, – ah, ah, – riprese: – siete del mestiere.
– Un pochino, – rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con una maestria, più che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un’occhiata ombrosa alla riva da cui s’allontanavano, e poi una impaziente a quella dov’eran rivolti, e si coceva di non poterci andar per la più corta; ché la corrente era, in quel luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell’acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come accade in tutti gli affari un po’ imbrogliati, che le difficoltà alla prima si presentino all’ingrosso, e nell’eseguire poi, vengan fuori per minuto, Renzo, ora che l’Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell’ostacolo, gliene rimanesse un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accennando col capo quella macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva ben più distinta, disse: – è Bergamo, quel paese?
– La città di Bergamo, – rispose il pescatore.
– E quella riva lì, è bergamasca?
– Terra di san Marco.
– Viva san Marco! – esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.
Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sé, e poi con la bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il quale, data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di sotto, stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per di più ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un’occhiata espressiva; e disse poi : – buon viaggio – , e tornò indietro.
Perché la così pronta e discreta cortesia di costui verso uno sconosciuto non faccia troppo maravigliare il lettore, dobbiamo informarlo che quell’uomo, pregato spesso d’un simile servizio da contrabbandieri e da banditi, era avvezzo a farlo; non tanto per amore del poco e incerto guadagno che gliene poteva venire, quanto per non farsi de’ nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni volta che potesse esser sicuro che non lo vedessero né gabellieri, né birri, né esploratori. Così, senza voler più bene ai primi che ai secondi, cercava di soddisfarli tutti, con quell’imparzialità, che è la dote ordinaria di chi è obbligato a trattar con cert’uni, e soggetto a render conto a cert’altri.
Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. “Ah! ne son proprio fuori! – fu il suo primo pensiero. – Sta’ lì, maledetto paese”, fu il secondo, l’addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull’acqua che gli scorreva a’ piedi, e pensò “è passata sotto il ponte!” Così, all’uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. “Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole”.
Voltò le spalle a que’ tristi oggetti, e s’incamminò, prendendo per punto di mira la macchia biancastra sul pendìo del monte, finché trovasse qualcheduno da farsi insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s’accostava a’ viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia da fare.
Quel viaggio non fu lieto. Senza parlare de’ guai che Renzo portava con sé, il suo occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da’ quali dovette accorgersi che troverebbe nel paese in cui s’inoltrava, la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne’ borghi, incontrava a ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, montanari, artigiani, famiglie intere; e un misto ronzìo di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero de’ casi suoi.
“Chi sa, – andava meditando, – se trovo da far bene? se c’è lavoro, come negli anni passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari, m’ha invitato tante volte; non m’abbandonerà. E poi, la Provvidenza m’ha aiutato finora; m’aiuterà anche per l’avvenire”.
Intanto l’appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo di miglio in miglio; e quantunque Renzo, quando cominciò a dargli retta, sentisse di poter reggere, senza grand’incomodo, per quelle due o tre che gli potevan rimanere; pensò, da un’altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al cugino, come un pitocco, e dirgli, per primo complimento: dammi da mangiare. Si levò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrere sur una mano, tirò la somma. Non era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però c’era abbondantemente da fare una mangiatina. Entrò in un’osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt’e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?
– La c’è la Provvidenza! – disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que’ pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada.
La refezione e l’opera buona (giacché siam composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perché, se a sostenere in quel giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch’io l’abbia saputo esprimere. Nel rimanente della strada, ripensando a’ casi suoi, tutto gli si spianava. La carestia doveva poi finire: tutti gli anni si miete: intanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: aveva, per di più, a casa un po’ di danaro, che si farebbe mandar subito. Con quello, alla peggio, camperebbe, giorno per giorno, finché tornasse l’abbondanza. “Ecco poi tornata finalmente l’abbondanza, – proseguiva Renzo nella sua fantasia: – rinasce la furia de’ lavori: i padroni fanno a gara per aver degli operai milanesi, che son quelli che sanno bene il mestiere; gli operai milanesi alzan la cresta; chi vuol gente abile, bisogna che la paghi; si guadagna da vivere per più d’uno, e da metter qualcosa da parte; e si fa scrivere alle donne che vengano… E poi, perché aspettar tanto? Non è vero che, con quel poco che abbiamo in serbo, si sarebbe campati là, anche quest’inverno? Così camperemo qui. De’ curati ce n’è per tutto. Vengono quelle due care donne: si mette su casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme! andar fino all’Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva, e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c’era un battello”.
Arriva al paese del cugino; nell’entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio, entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell’acqua cadente e delle rote, se stia lì un certo Bortolo Castagneri.
– Il signor Bortolo! Eccolo là.
“Signore? buon segno”, pensa Renzo; vede il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli dice: – son qui -. Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli ordigni, e dagli occhi de’ curiosi, in un’altra stanza, e gli dice: – ti vedo volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T’avevo invitato tante volte; non sei mai voluto venire; ora arrivi in un momento un po’ critico.
– Se te lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà, disse Renzo; e, con la più gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia.
È un altro par di maniche, – disse Bortolo. – Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me; e io non t’abbandonerò. Veramente, ora non c’è ricerca d’operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. Povera Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia… Mi par di vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il muro…
– No, no; non ne parliamo.
– Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al mio tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che vedo: fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui si patisce un po’ la fame… A proposito, come stai d’appetito?
– Ho mangiato poco fa, per viaggio.
– E a danari, come stiamo?
Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un piccol soffio.
– Non importa, – disse Bortolo: – n’ho io: e non ci pensare, che, presto presto, cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n’avanzerà anche per te.
– Ho qualcosina a casa; e me li farò mandare.
– Va bene; e intanto fa’ conto di me. Dio m’ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo a’ parenti e agli amici, a chi ne farò?
– L’ho detto io della Provvidenza! – esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino.
– Dunque, – riprese questo, – in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La citta ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile. Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano. Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s’è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s’è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà buona accoglienza. Un buon bergamascone all’antica, un uomo di cuor largo. Veramente, ora non t’aspettava; ma quando sentirà la storia… E poi gli operai sa tenerli di conto, perché la carestia passa, e il negozio dura. Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?
– Come ci chiamano?
– Ci chiaman baggiani.
– Non è un bel nome.
– Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.
– Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.
– Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima!
– E un milanese che abbia un po’ di… – e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. – Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?
– Tutt’uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici? “Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato”. L’è usanza così.
– L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti?
– Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c’è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos’è poi finalmente? Era ben un’altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.
– Già, è vero: se non c’è altro di male…
– Ora che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e coraggio.
Tutto in fatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo, che crediamo inutile di farne particolar relazione. E fu veramente provvidenza; perché la roba e i quattrini che Renzo aveva lasciati in casa, vedremo or ora quanto fosse da farci assegnamento.

CAPITOLO XVIII

Quello stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l’appunto, verum in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit, d’averlo nelle mani, e, legato a dovere, videlizet con buone manette, attesa l’esperimentata insufficienza de’ manichini per il nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non c’è, o non si lascia trovare. Si sfonda l’uscio; si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. La voce di quella spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d’un fatto così inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l’uno con l’altro, che è una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tant’è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria cognizione de’ fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Ma noi, co’ fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse opera sua, e ne trionfò co’ suoi fidati, e principalmente col conte Attilio. Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’ tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga durata: l’ordine venuto da Milano dell’esecuzione da farsi contro Renzo era già un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso tempo, se n’ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persister nell’impresa, a spuntar l’impegno, e promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal frate; al qual affare, il fortunato accidente dell’abietto rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere come fosse fatto.
Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendé più cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l’arrabbiato frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que’ vantaggi, li rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar né via né verso d’espugnarlo, né con la forza, né per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro compagnia, nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, – e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d’un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l’odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso d’ogni mascalzone, anche in mezzo agl’inchini, si potrebbe leggere un amaro: l’hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all’ingiù.
A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non poteva andare avanti da sé, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed era di chieder l’aiuto d’un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Ma questo partito aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolar prima; giacché nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell’uomo, potente ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l’uno e l’altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che, una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d’Attilio che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l’ultima spinta, fu la notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando dall’ultimo.
Le due povere donne s’erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva tenere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui, notizie di lì, e ne faceva parte all’ospiti.
– Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl’impiccheranno, parte davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c’è la casa del vicario di provvisione… Ehi, ehi, sentite questa! n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete.
Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: – è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete?
A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese; la quale, conturbata anche lei, però non tanto, poté star forte; e, per risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile; perché era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di certo, e dove.
– Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l’accalappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l’unghie, il vostro giovine posato…
Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n’andò: figuratevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d’un giorno, dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come, sul perché, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sé, o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.
Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d’Agnese. Era un pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l’aveva pregato che, passando per Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse loro d’aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l’occasione di poterle aiutare; e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch’erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che s’era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d’allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c’era mescolato un ringraziamento.
Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni di prudenza. Era perché alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!
Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: “a questa fo del bene”. Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!
Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co’ saluti del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive intorno a’ suoi guai, nessuna; perché, come abbiam detto al lettore, il cappuccino aveva sperato d’averle dal suo confratello di Milano, a cui l’aveva raccomandato; e questo rispose di non aver veduto né la persona, né la lettera; che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una privazione d’un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d’inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d’allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere l’ambasciatore promesso, la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell’asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a’ suoi monti. Lo trovò in fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar presto; e partì.
Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in un’osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di buon’ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacché era lì, volle, prima d’andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.
– Oh! la mia donna, che vento v’ha portata?
– Vengo a cercare il padre Cristoforo.
– Il padre Cristoforo? Non c’è.
– Oh! starà molto a tornare?
– Ma…? – disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa rasa.
– Dov’è andato?
– A Rimini.
– A?
– A Rimini.
– Dov’è questo paese?
– Eh eh eh! – rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una gran distanza.
– Oh povera me! Ma perché è andato via così all’improvviso?
– Perché ha voluto così il padre provinciale.
– E perché mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore!
– Se i superiori dovessero render conto degli ordini che dànno, dove sarebbe l’ubbidienza, la mia donna?
– Sì; ma questa e la mia rovina.
– Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d’un buon predicatore (ce n’abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell’uomo fatto apposta); il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev’esser proprio così, vedete.
– Oh poveri noi! Ouand’è partito?
– Ierlaltro.
– Ecco! s’io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?
– Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perché non predica sempre a braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da… da che so io? E allora, bisogna mandarlo; perché noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.
Oh Signore! Signore! – esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: – come devo fare, senza quell’uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.
– Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce n’abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co’ signori e co’ poveri. Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?
– Oh per carità! – esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d’impazienza, che si prova a un’esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la propria convenienza: – cosa m’importa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover’uomo che non c’è più, era quello che sapeva le nostre cose, e aveva preparato tutto per aiutarci?
– Allora, bisogna aver pazienza.
– Questo lo so, – rispose Agnese: – scusate dell’incomodo.
– Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar qualcheduno de’ nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio.
– State bene, – disse Agnese; e s’incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.
Un po’ meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporaneamente il governo). Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.
Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: – credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio d’un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze…
– Qualcheduna delle sue, m’immagino.
– Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa…
– Vediamo, vediamo.
– C’è da quelle parti un frate cappuccino che l’ha con Rodrigo e la cosa è arrivata a un punto che…
– Quante volte v’ho detto, all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che dànno a chi deve… a chi tocca… – E qui soffiò. – Ma voi altri che potete scansarli…
– Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l’avrebbe scansato, se avesse potuto. E il frate che l’ha con lui, che l’ha preso a provocarlo in tutte la maniere…
– Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?
– Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità… non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa.
– Intendo, – disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.
– Ora, da qualche tempo, – continuò Attilio, – s’è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa…
– S’è cacciato in testa, s’è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie.
– Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signore zio; il serio è che il frate s’è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli contro tutto il paese…
– E gli altri frati?
– Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall’altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e…
– M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
– Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
– Come? Come?
– Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorita come vossignoria: e che lui se la ride de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che…
– Oh frate temerario! Come si chiama costui?
– Fra Cristoforo da *** – disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: – è sempre stato di quell’umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate.
– Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, – diceva il conte zio, seguitando a soffiare.
– Ora poi, – continuava Attilio, – è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m’intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il… l’uomo: un’altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto.
– Chi è costui?
– Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che…
– Lorenzo Tramaglino! – esclamò il conte zio. – Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro… infatti…, aveva una lettera per un… Peccato che… Ma non importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perché lascia andar le cose tant’avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere?
– Dirò il vero anche in questo, – proseguiva Attilio. – Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio… – (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) – s’è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de’ gangheri, così stucco delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in qualche maniera sommaria, che d’ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d’avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa…
– Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.
– È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sé, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n’anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma…
– Ora toccherà a me a raccomodarla.
– Così ho pensato anch’io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l’onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l’ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch’io non conosco: so che il padre provinciale ha, com’è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole…
– Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, – disse un po’ ruvidamente il conte zio.
– Ah è vero! – esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di compassione per sé stesso. – Son io l’uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d’aver fatto un altro male, – soggiunse con un’aria pensierosa: – ho paura d’aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio…
– Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finché l’uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che… mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che, – e qui immaginatevi che soffio mise, – tutti questi benedetti affari di stato.
Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n’andò, accompagnato da un – e abbiamo giudizio, – ch’era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.

CAPITOLO XIX

Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall’insinuazione d’Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall’altra parte, il ripiego era talmente adattato all’umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l’avrebbe trovato da sé. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sé, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand’anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello.
Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Oualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto distinto; dell’Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: – stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero… E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?
Il provinciale fece cenno di sì.
– Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico… questo soggetto… questo padre… Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo… Ma in tutte le famiglie un po’ numerose… c’è sempre qualche individuo, qualche testa… E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo… un po’ amico de’ contrasti… che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi… Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.
“Ho inteso: è un impegno, – pensava intanto il provinciale: – colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna”.
– Oh! – disse poi: – mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso… esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
– Intendo benissimo; vostra paternità deve… Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze… possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo… vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose… cose… Lorenzo Tramaglino!
“Ahi!” pensò il provinciale; e disse: – questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli…
– Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie…! Son cose spinose, affari delicati… – E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: – ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se mai sua eccellenza… Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma… non so niente… e da Roma venirle…
– Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
– Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
– È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito…
– Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
– Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni…
– Se lei sa positivamente, – disse il provinciale, – che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.
– Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe… Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
– Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
– Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato…
– Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare… tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato…
– Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo… si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni… pur troppo eh, padre molto reverendo?…
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, – tocca a noi, – continuò, – a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi… potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso. “Eh già! – pensava tra sé: – vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare”.
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, – intendo benissimo, – disse il provinciale, – quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo…
È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito… mio nipote non crederei… ci son io, per questo… Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta… e allora non è più solamente mio nipote… Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze…
– Cospicue.
– Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo… è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora… anche chi è amico della pace… Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere… di trovarmi… io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini…! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi… E poi, hanno de’ parenti al secolo… e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro… mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro… Sua eccellenza… i miei signori colleghi… tutto diviene affar di corpo… tanto più con quell’altra circostanza… Lei sa come vanno queste cose.
– Veramente, – disse il padre provinciale, – il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero… Mi si richiede appunto… Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro…
– No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero… mi sono spiegato.
– Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano… Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso… L’onor dell’abito… non è cosa mia… è un deposito del quale… Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e… non dico vantarsene, trionfarne, ma…
– Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato… secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. – In quanto ai cicaloni, – riprese, – che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo… noi che prevediamo… noi che ci tocca… non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
– Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo… non per noi, ma per l’abito…
– Sicuro, sicuro; quest’è giusto… Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso… qualcosa di straordinario… è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote… Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana… per levar proprio ogni occasione…
– Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi…
– Molto a proposito, molto a proposito. E quando…?
– Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
– Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, – continuava poi, alzandosi da sedere, – se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini…
– Conosciamo per prova la bontà della casa, – disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
– Abbiamo spento una favilla, – disse questo, soffermandosi, – una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.
Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.
Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano. C’è dentro l’obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d’affari che potesse avere avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il frate latore dev’essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sé: “oh Dio! cosa faranno que’ meschini, quando io non sarò più qui!” Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d’ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono, s’allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da’ suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta.
Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama “un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita”, e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. “Riferirò”, dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, “il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse…” Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. “Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore”.
Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, “in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste”. Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. “Anche alcuni principi esteri, – dice, – si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini”.
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto. “Quella casa – cito ancora il Ripamonti, – era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate”. Oltre questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.
Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità: giacché chi ha l’assunto di provvedere, e non n’ha la volontà, o non ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo segno, a’ casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s’avviò al castello dell’innominato.

CAPITOLO XX

Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggiante; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.
Al rumore d’una cavalcatura che s’avvicinava, comparve sulla soglia un ragazzaccio, armato come un saracino; e data un’occhiata, entrò ad informare tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di tegoli. Colui che pareva il capo s’alzò, s’affacciò all’uscio, e, riconosciuto un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d’un peso inutile, e salir più lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell’erta non era permesso d’andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso, dicendogli: – voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po’ allegri con questa brava gente -. Cavò finalmente alcuni scudi d’oro, e li mise in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo, cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero coi tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.
Un altro bravaccio dell’innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e s’accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quant’altri avrebbe incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto (lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane, e in ognuna delle quali c’era di guardia qualche bravo; e, dopo avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’innominato.
Questo gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse da lui, per quanto fosse de’ più vecchi e provati amici. Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e di animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo, né invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L’innominato che ne sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de’ tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a esagerare le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!… A questo, l’innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. Prese l’appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don Rodrigo, dicendo: – tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare.
Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato: perciò questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola. Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. “Invecchiare! morire! e poi?” E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a se stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer se stesso ch’era ancor quello.
Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse Egidio dell’impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l’aspettasse, con la risposta d’Egidio: che l’impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest’annunzio, l’innominato, comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla spedizione.
Se per rendere l’orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far conto de’ soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una promessa così decisa. Ma, in quell’asilo stesso dove pareva che tutto dovesse essere ostacolo, l’atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui. Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che un primo passo in una strada d’abbominazione e di sangue. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell’innocente che aveva in custodia.
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il giorno stabilito; l’ora convenuta s’avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell’ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima.
– Ho bisogno d’un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a’ miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand’importanza, che vi dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de’ cappuccini che v’ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche necessario che nessuno sappia che l’ho mandato a chiamare io. Non ho che voi per far segretamente quest’imbasciata.
Lucia fu atterrita d’una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto… Ma Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che, quand’anche non l’avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva sbagliare!… Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: – e bene; cosa devo fare?
– Andate al convento de’ cappuccini: – e le descrisse la strada di nuovo: – fate chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
– Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m’ha mai vista uscire, e mi domanderà dove vo?
– Cercate di passare senz’esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l’anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: – e bene; anderò. Dio m’aiuti! – E si mosse.
Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: – sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: – fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto -. Lucia partì.
Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l’indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n’uscì, andò tutta raccolta e un po’ tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt’ora, affondata, a guisa d’un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que’ due, che diceva: – ecco una buona giovine che c’insegnerà la strada -. Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse: – quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
– Andando di lì, vanno a rovescio, – rispondeva la poverina:
– Monza è di qua… – e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In tanto il Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera. L’altro che le aveva fatta quella domanda traditora, rimasto nella strada, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c’era nessuno; saltò sur una riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno sgherro d’Egidio; era stato, facendo l’indiano, sulla porta del suo padrone, per veder quando Lucia usciva dal monastero; l’aveva osservata bene, per poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto convenuto.
Chi potrà ora descrivere il terrore, l’angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di que’ visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza; quattro altre manacce ve l’appuntellavano. Ogni volta che aprisse la bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre bocche d’inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan ripetendo: – zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male -. Dopo qualche momento d’una lotta così angosciosa, parve che s’acquietasse; allentò le braccia, lasciò cader la testa all’indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l’occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s’abbandonò, e svenne.
– Su, su, coraggio, – diceva il Nibbio. – Coraggio, coraggio, – ripetevan gli altri due birboni; ma lo smarrimento d’ogni senso preservava in quel momento Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
– Diavolo! par morta, – disse uno di coloro: – se fosse morta davvero?
– Oh! morta! – disse l’altro: – è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io so che, quando ho voluto mandare all’altro mondo qualcheduno, uomo o donna che fosse, c’è voluto altro.
– Via! – disse il Nibbio: – attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro. Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; che in questo bosco dove s’entra ora, c’è sempre de’ birboni annidati. Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s’era inoltrata nel bosco.
Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, – via, – le disse, più dolcemente che poté; – state zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star noi.
– Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m’avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
– Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
– No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
– Vi conosciamo noi.
– Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete voi? Perché m’avete presa?
– Perché c’è stato comandato.
– Chi? chi? chi ve lo può aver comandato?
– Zitta! – disse con un visaccio severo il Nibbio: – a noi non si fa di codeste domande.
Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, – oh – diceva: – per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.
– Non possiamo.
– Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? …
– Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr’ore; e dopo il quale avremo altre ore angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove l’infelice era aspettata.
Era aspettata dall’innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un’alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de’ cavalli. E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle carrozzine che si dànno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte.
“Ci sarà? – pensò subito; e continuava tra sé: – che noia mi dà costei! Liberiamocene”.
E voleva chiamare uno de’ suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una sua vecchia donna.
Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de’ suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall’istruzioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran male e del gran bene. L’idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co’ sentimenti d’un rispetto, d’un terrore, d’una cupidigia servile, s’era associata e adattata a quelli. Quando l’innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell’uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s’era avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e sfrenata d’un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l’ossa sur una strada, e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l’orgoglio di trovarsi sotto una tal protezione. D’allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servizio particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l’uno ora l’altro, le davan da fare ogni poco; ch’era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran conditi di beffe e d’improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n’attaccava, variavano secondo le circostanze e l’umore dell’amico. E colei, disturbata nella pigrizia, e provocata nella stizza, ch’erano due delle sue passioni predominanti, contraccambiava alle volte que’ complimenti con parole, in cui Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de’ provocatori.
– Tu vedi laggiù quella carrozza! – le disse il signore.
– La vedo, – rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell’occhiaie.
– Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c’è… ci dev’essere… una giovine. Se c’è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me. Tu starai nella bussola, con quella… giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non…
– Oh! – disse la vecchia.
– Ma, – continuò l’innominato, – falle coraggio.
– Cosa le devo dire?
– Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando sI vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que’ momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va’.
E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzò al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso.

CAPITOLO XXI

La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l’autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un po’ prima che la carrozza ci arrivasse; e vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse, s’avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il Nibbio s’era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: – venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.
Al suono d’una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. – Chi siete? – disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.
– Venite, venite, poverina, – andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero l’intenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone l’oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de’ suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c’entrò la vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
– Chi siete? – domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: – perché son con voi? dove sono? dove mi conducete?
– Da chi vuol farvi del bene, – rispondeva la vecchia, – da un gran… Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura, state allegra, ché m’ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che v’ho fatto coraggio?
– Chi è? perché? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine…!
Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne’ primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un’impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.
Intanto l’innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.
– Ebbene? – disse, fermandosi lì.
– Tutto a un puntino, – rispose, inchinandosi, il Nibbio: – l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma…
– Ma che?
– Ma… dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.
– Cosa? cosa? che vuoi tu dire?
– Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo… M’ha fatto troppa compassione.
– Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?
– Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.
– Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
– O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…
“Non la voglio in casa costei, – pensava intanto l’innominato.
– Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà lontana…” E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, – ora, – gli disse, – metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va’ di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi… ma subito subito, perché altrimenti…
Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. – No, – disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella voce segreta, – no: va’ a riposarti; e domattina… farai quello che ti dirò!
“Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. – Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, – proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, – e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché… perché ho promesso: e ho promesso perché… è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco…”
E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! “Come può aver fatto costei? – continuava, strascinato da quel pensiero. – Voglio vederla… Eh! no… Sì, voglio vederla”.
E d’una stanza in un’altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all’uscio con un calcio.
– Chi è?
– Apri.
A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l’uscio si spalancò. L’innominato, dalla soglia, diede un’occhiata in giro; e, al lume d’una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall’uscio.
– Chi t’ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? – disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
– S’è messa dove le è piaciuto, – rispose umilmente colei: – io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c’è stato verso.
– Alzatevi, – disse l’innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell’uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
– Alzatevi, ché non voglio farvi del male… e posso farvi del bene, – ripeté il signore… – Alzatevi! – tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte comandato invano.
Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: – son qui: m’ammazzi.
– V’ho detto che non voglio farvi del male, – rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore.
– Coraggio, coraggio, – diceva la vecchia: – se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male…
– E perché, – riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata, – perché mi fa patire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?…
– V’hanno forse maltrattata? Parlate.
– Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio…
– Dio, Dio, – interruppe l’innominato: – sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi…? – e lasciò la frase a mezzo.
– Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a *** dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui… ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!
“Oh perché non è figlia d’uno di que’ cani che m’hanno bandito! – pensava l’innominato: – d’uno di que’ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece…”
– Non iscacci una buona ispirazione! – proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert’aria d’esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. – Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!… Forse un giorno anche lei… Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene…!
– Via, fatevi coraggio, – interruppe l’innominato, con una dolcezza che fece strasecolar la vecchia. – V’ho fatto nessun male? V’ho minacciata?
– Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha… un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l’opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.
– Domattina…
– Oh mi liberi ora, subito…
– Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.
– No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa… que’ passi Dio glieli conterà.
– Verrà una donna a portarvi da mangiare, – disse l’innominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
– E tu, – riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, – falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!
Così detto, si mosse rapidamente verso l’uscio. Lucia s’alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
– Oh povera me! Chiudete, chiudete subito -. E sentito ch’ebbe accostare i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. – Oh povera me! – esclamò di nuovo singhiozzando: – chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore… quello che m’ha parlato?
– Chi è, eh? chi è? Volete ch’io ve lo dica. Aspetta ch’io te lo dica. Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S’io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. – Io son vecchia, son vecchia, – continuò, mormorando tra i denti. – Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -. Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: – via, non v’ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco… nella maniera che v’ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e… mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, – soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa.
– Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v’accostate; non partite di qui!
– No, no, via, – disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d’astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d’esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s’avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de’ suoi dolori, de’ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all’immagini sognate da un febbricitante.
Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: – chi è? chi è? Non venga nessuno!
– Nulla, nulla; buone nuove, – disse la vecchia: – è Marta che porta da mangiare.
– Chiudete, chiudete! – gridava Lucia.
– Ih! subito, subito, – rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de’ cibi: – di que’ bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co’ suoi amici… quando capita qualcheduno di quelli…! e vogliono stare allegri! Ehm! – Ma vedendo che tutti gl’incanti riuscivano inutili, – siete voi che non volete, – disse. – Non istate poi a dirgli domani ch’io non v’ho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire -. Così detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu, s’alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l’invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.
– No, no, non voglio nulla, – rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: – è serrato l’uscio? è serrato bene? – E dopo aver guardato in giro per la camera, s’alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.
La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: – sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?
– Oh contenta! contenta io qui! – disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. – Ma il Signore lo sa che ci sono!
– Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S’è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?
– No, no; lasciatemi stare.
– Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che v’ho pregata più volte -. Così dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt’a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l’orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: – o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra.
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo.
Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. “Che sciocca curiosità da donnicciola, – pensava, – m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!… Io?… io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?”
E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. “È viva costei, – pensava, – è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi… Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! – disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: – via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa”.
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
“La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo?”
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. “Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è, se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia… E se c’è quest’altra vita…!”
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. “E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!” E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. “Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro?” Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria.
“Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?” E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que’ gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.

CAPITOLO XXII

Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest’arrivo ne’ paesi d’intorno aveva invogliati tutti d’andare a veder quell’uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso. “Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n’avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Cos’ha quell’uomo, per render tanta gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura… Ma costoro non vanno tutti per l’elemosina. Ebbene, qualche segno nell’aria, qualche parola… Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se…! Perché non vado anch’io? Perché no?… Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr’occhi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che… Sentirò cosa sa dir lui, quest’uomo!”
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una sua casacca d’un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta rimasta sul letto, e l’attaccò alla cintura da una parte; dall’altra, un’altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un cantuccio vicino all’uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data un’occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
– Dorme? – domandò sotto voce alla vecchia: – là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata?
– Io ho fatto di tutto, – rispose quella: – ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire…
– Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà… Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si sveglierà… dille che io… che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che… farà tutto quello che lei vorrà.
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: “che sia qualche principessa costei?”
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov’era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de’ valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla, per veder Federigo.
I bravi che s’abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e dell’occhiate che dava in risposta a’ loro inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri, era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò subito di bocca in bocca; e la folla s’apriva. S’accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale. – In casa del curato, – rispose quello, inchinandosi, e gl’indicò dov’era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c’eran molti preti, che tutti lo guardarono con un’attenzione maravigliata e sospettosa. Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e l’appoggiò in un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.
– Io son forestiero, – rispose l’interrogato, e data un’occhiata intorno, chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: – colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla larga! – Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette venire l’innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un poco, poi disse o balbettò: – non saprei se monsignore illustrissimo… in questo momento… si trovi… sia… possa… Basta, vado a vedere -. E andò a malincorpo a far l’imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po’ di tempo all’ombra d’un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte d’acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d’una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d’andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi. Si valse dell’autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato d’esempio, un primato che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l’infimo per condizione. I vantaggi d’un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Né credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un’altra guerra ebbe a sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s’invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non che lasciarsi vincere da que’ tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella presenza grave, solenne, ch’esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l’ossequio manifesto e spontaneo de’ circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d’un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent’anni, fosse mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà, la parentela e gl’impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un’idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l’arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l’ipocrisia non ha bisogno d’un più grande sforzo d’ingegno per farle, che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo d’esser l’espressione naturale d’un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole ch’esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gl’impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri: come poi intendesse infatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, d’una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v’unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; una galleria di quadri, una di statue, e, una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de’ libri e de’ manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de’ tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento d’utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d’Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d’indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d’una biblioteca: allora non era così. E in una storia dell’ambrosiana, scritta (col costrutto e con l’eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n’aveva neppur l’idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all’uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n’era e ce n’è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos’importa? e c’era altro da pensare? e che bell’invenzione! e mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell’impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de’ suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia bisogno di sapere se n’abbia spesi molt’altri in soccorso immediato de’ bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l’elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei all’opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De’ molti esempi singolari che d’una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d’un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio impiegati in cent’altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d’una virtù così libera dall’opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca.
La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella visita d’un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l’interrogare e l’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l’avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que’ ragazzi, perche eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de’ loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: – sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de’ suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co’ pastori suoi subordinati che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d’ardore, né d’agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell’animo suo, più mirabile se vi si destavano. Non solo da’ molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest’avversione al predominare apparivano ugualmente nell’occasioni più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d’impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall’ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di notare un’altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu d’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento, d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c’ebbe una parte, ma ce n’ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con tant’altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello d’uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere un’orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest’uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arti e d’altro. “E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor d’animo, con tant’altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri?”
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l’osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v’andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest’uomo, andiamo a vederlo in azione, con la guida del nostro autore.

CAPITOLO XXIII

Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l’ora d’andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com’era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
– Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!
– Chi è? – domandò il cardinale.
– Niente meno che il signor… – riprese il cappellano- e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: – è qui fuori in persona; e chiede nient’altro che d’esser introdotto da vossignoria illustrissima.
– Lui! – disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: – venga! venga subito!
– Ma… – replicò il cappellano, senza moversi: – vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso…
– E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?
– Ma… – insistette il cappellano: – noi non possiamo mai parlare di certe cose, perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi pare che sia un dovere… Lo zelo fa de’ nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l’altro…
– E che hanno fatto? – interruppe il cardinale.
– Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza co’ disperati più furiosi, e che può esser mandato…
– Oh, che disciplina è codesta, – interruppe ancora sorridendo Federigo, – che i soldati esortino il generale ad aver paura? – Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: – san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo.
Il cappellano si mosse, dicendo tra sé: “non c’è rimedio: tutti questi santi sono ostinati”.
Aperto l’uscio, e affacciatosi alla stanza dov’era il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott’occhio quello, lasciato solo in un canto. S’avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dell’occhio, andava pensando che diavolo d’armeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d’introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno… ma non si seppe risolvere. Gli s’accostò, e disse: – monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me -. E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi altri, che fa sempre a modo suo?
Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’innominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d’una tal visita, tutt’animato, – oh! – disse: – che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!
– Rimprovero! – esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
– Certo, m’è un rimprovero, – riprese questo, – ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.
– Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?
– E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi.
L’innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. – E che? – riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: – voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?
– Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.
– Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, – rispose pacatamente il cardinale.
– Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?
– Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?
– Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: – cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere… – (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); – che gloria, – proseguiva Federigo, – ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover’uomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora!
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.
– Dio grande e buono! – esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: – che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perche mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio! – Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’innominato.
– No! – gridò questo, – no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.
– Lasciate, – disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, – lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.
– È troppo! – disse, singhiozzando, l’innominato. – Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete… con chi!
– Lasciamo le novantanove pecorelle, – rispose il cardinale: – sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto -. Così dicendo, stese le braccia al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento.
L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: – Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!
È un saggio, – disse Federigo, – che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! – Me sventurato! – esclamò il signore, – quante, quante… cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.
Federigo si mise in attenzione; e l’innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello…
– Ah, non perdiam tempo! – esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine. – Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v’ha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata?
Il signore nominò il paese di Lucia.
– Non è lontano di qui, – disse il cardinale: – lodato sia Dio; e probabilmente… – Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E subito entrò con ansietà il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò l’innominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò il cardinale; e sotto quell’inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere estatico con la bocca aperta, se il cardinale non l’avesse subito svegliato da quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse quello di ***.
– C’è, monsignore illustrissimo, – rispose il cappellano.
– Fatelo venir subito, – disse Federigo, – e con lui il parroco qui della chiesa.
Il cappellano uscì, e andò nella stanza dov’eran que’ preti riuniti: tutti gli occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor tutto dipinto di quell’estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: – signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi-. E stette un momento senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: – sua signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***.
Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un: – io? – strascicato, con un’intonazione di maraviglia.
– Non è lei il signor curato di ***? – riprese il cappellano.
– Per l’appunto; ma…
– Sua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.
– Me? – disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò all’uscio, l’aprì, e gl’introdusse.
Il cardinale lasciò andar la mano dell’innominato, col quale intanto aveva concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno il curato della chiesa. Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell’animo una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a proposito, e uscì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare due mule. Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio.
Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell’altro signore, e che intanto dava un’occhiatina di sotto in su ora all’uno ora all’altro, seguitando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s’accostò di più, fece una riverenza, e disse: – m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.
– Non hanno sbagliato, – rispose Federigo: – ho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra creatura, e l’accompagnerete qui.
Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d’ubbidienza. E non l’alzò che per fare un altro profondo inchino all’innominato, con un’occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis.
Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia.
– Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, – rispose don Abbondio.
– E questa si trova al suo paese?
– Monsignor, sì.
– Giacché, – riprese Federigo, – quella povera giovine non potrà esser così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch’io vada in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui.
– E se andassi io? – disse don Abbondio.
– No, no, voi: v’ho già pregato d’altro, – rispose il cardinale.
– Dicevo, – replicò don Abbondio, – per disporre quella povera madre. È una donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo verso, per non farle male in vece di bene.
– E per questo, vi prego d’avvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito: voi siete molto più necessario altrove, – rispose il cardinale. E avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tant’ore di spasimo, e in una terribile oscurità dell’avvenire. Ma questa non era ragione da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale che don Abbondio non l’avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor di luogo gli parve la proposta e l’insistenza, che pensò doverci esser sotto qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare con quell’uomo tremendo, d’andare in quella casa, anche per pochi momenti. Volendo quindi dissipare affatto quell’ombre codarde, e non piacendogli di tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all’innominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era più uomo da averne paura. S’avvicinò dunque all’innominato, e con quell’aria di spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in un’antica intrinsichezza, – non crediate, – gli disse, – ch’io mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, n’è vero? in compagnia di questo ecclesiastico dabbene?
– S’io tornerò? – rispose l’innominato: – quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!
Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: – favorirete dunque di restare a desinare con noi. V’aspetto. Intanto, io vo a pregare, e a render grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.
Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice né approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia!
Al cardinale, che s’era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco l’innominato, diede di nuovo nell’occhio il pover’uomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli d’esser trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d’un facinoroso così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: – signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo… questo perierat, et inventus est.
– Oh quanto me ne rallegro! – disse don Abbondio, facendo una gran riverenza a tutt’e due in comune.
L’arcivescovo andò avanti, spinse l’uscio, che fu subito spalancato di fuori da due servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro que’ due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una tenerezza riconoscente, un’umile gioia nell’aspetto venerabile di Federigo; in quello dell’innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a più d’uno de’ riguardanti era allora venuto in mente quel detto d’Isaia: il lupo e l’agnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame. Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò.
Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dall’altra parte l’aiutante di camera del cardinale, e gli s’accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e s’aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e tutto poi fosse agli ordini di questo e dell’innominato; al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: – v’aspetto -. Si voltò a salutar don Abbondio, e s’avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza.
Stava l’innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il momento d’andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva un’agitazione concentrata, che all’occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare un discorso amichevole; ma, “cosa devo dirgli? – pensava: – devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni non vorrebbero dir altro che questo. E se sarà poi vero che sia diventato galantuomo: così a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l’avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m’ha da sentire la signora Perpetua, d’avermi cacciato qui per forza, quando non c’era necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d’intorno accorrevano, anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest’altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa bisognerà dirgli a costui”. E pensa e ripensa, aveva trovato che gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d’incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò l’aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui l’altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in quella confusione di mente; e accostatosi poi all’aiutante, gli disse: – mi dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore.
– Si figuri, – rispose l’aiutante, con un mezzo sogghigno: – è la mula del segretario, che è un letterato.
– Basta… – replicò don Abbondio, e continuò pensando: “il cielo me la mandi buona”.
Il signore s’era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all’uscio, s’accorse di don Abbondio, ch’era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l’inchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide un’altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l’innominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi per la cigna con l’altra, e, con un movimento spedito, come se facesse l’esercizio, mettersela ad armacollo.
“Ohi! ohi! ohi! – pensò don Abbondio: – cosa vuol farne di quell’ordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione!”
Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria. Arrivati all’uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: l’innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere.
– Vizi non ne ha? – disse all’aiutante di camera don Abbondio, rimettendo in terra il piede, che aveva già alzato verso la staffa.
– Vada pur su di buon animo: è un agnello -. Don Abbondio, arrampicandosi alla sella, sorretto dall’aiutante, su, su, su, è a cavallo.
La lettiga, ch’era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a una voce del lettighiero; e la comitiva partì.
Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta piena anch’essa d’altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto entrare in quella. Già la gran nuova era corsa; e all’apparir della comitiva, all’apparir di quell’uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e d’esecrazione, ora di lieta maraviglia, s’alzò nella folla un mormorìo quasi d’applauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino. La lettiga passò, l’innominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il concerto solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime.
Fuori poi dell’abitato, nell’aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri. Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria d’imbelle. Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s’andava verso quella valle tremenda, dove non s’incontrerebbe che sudditi dell’amico: e che sudditi! Con l’amico avrebbe desiderato ora più che mai d’entrare in discorso, tanto per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così soprappensiero, gliene passava la voglia. Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di ciò che il pover’uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro.
“È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo. E costui…!” E qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui sentisse i suoi pensieri, “costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione… se sarà vero. Intanto tocca a me a farne l’esperienza!… È finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatt’io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo… oh povero me!… e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando s’ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant’apparato, senza dar tant’incomodo al prossimo. E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l’avesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani e co’ piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo. Un vescovo santo, com’è lui, de’ curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare anche con la santità… E se fosse tutto un’apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare. Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un’intesa con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l’ha avuta nell’unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c’era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos’ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina… Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare Oloferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo d’aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio”.
Infatti, sul volto dell’innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un’ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L’animo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, s’elevava a quell’idee di misericordia, di perdono e d’amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansietà a cercare quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i rimedi più espedienti e più sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A quella stessa spedizione, ch’era la più facile e così vicina al termine, andava con un’impazienza mista d’angoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a patire. Dove c’eran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale dovesse prendere: l’innominato gliel’indicava con la mano, e insieme accennava di far presto.
Entrano nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que’ famosi uomini, il fiore della braveria d’Italia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un punto di somma costernazione, gli venne detto tra sé: “gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio”. Intanto s’andava avanti per un sentiero sassoso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge.
Passan davanti la Malanotte; bravacci sull’uscio, inchini al signore, occhiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare: già la partenza dell’innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il ritorno non lo era meno. Era una preda che conduceva? E come l’aveva fatta da sé? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perché questo era l’ordine che il padrone dava loro con dell’occhiate.
Fanno la salita, sono in cima. I bravi che si trovan sulla spianata e sulla porta, si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l’innominato fa segno che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: – tu sta’ costì, e non venga nessuno -. Smonta, lega in fretta la mula a un’inferriata, va alla lettiga, s’accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce: – consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d’amici. Dio ve ne renderà merito -. Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi s’avvicina a don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non gliel aveva ancor visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dell’opera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce: – signor curato, non le chiedo scusa dell’incomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina -. Ciò detto, prende con una mano il morso, con l’altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.
Quel volto, quelle parole, quell’atto, gli avevan dato la vita. Mise un sospiro, che da un’ora gli s’aggirava dentro, senza mai trovar l’uscita; si chinò verso l’innominato, rispose a voce bassa bassa: – le pare? Ma, ma, ma, ma,…! – e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L’innominato legò anche quella, e detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una chiave di tasca, aprì l’uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, s’avviò davanti a loro alla scaletta; e tutt’e tre salirono in silenzio.

CAPITOLO XXIV

Lucia s’era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a svegliarsi affatto, a separar le torbide visioni del sonno dalle memorie e dall’immagini di quella realtà troppo somigliante a una funesta visione d’infermo. La vecchia le si era subito avvicinata, e, con quella voce forzatamente umile, le aveva detto: – ah! avete dormito? Avreste potuto dormire in letto: ve l’ho pur detto tante volte ier sera -. E non ricevendo risposta, aveva continuato, sempre con un tono di supplicazione stizzosa: – mangiate una volta: abbiate giudizio. Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare. E poi se, quando torna, la piglia con me?
– No, no; voglio andar via, voglio andar da mia madre. Il padrone me l’ha promesso, ha detto: domattina. Dov’è il padrone?
– È uscito; m’ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete.
– Ha detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre; subito, subito.
Ed ecco si sente un calpestìo nella stanza vicina; poi un picchio all’uscio. La vecchia accorre, domanda: – chi è?
– Apri, – risponde sommessamente la nota voce. La vecchia tira il paletto; l’innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po’ di spiraglio: ordina alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna. Socchiude poi di nuovo l’uscio, si ferma dietro a quello, e manda la vecchia in una parte lontana del castellaccio; come aveva già mandata via anche l’altra donna che stava fuori, di guardia.
Tutto questo movimento, quel punto d’aspetto, il primo apparire di persone nuove, cagionarono un soprassalto d’agitazione a Lucia, alla quale, se lo stato presente era intollerabile, ogni cambiamento però era motivo di sospetto e di nuovo spavento. Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto: guarda più attenta: è lui, o non è lui? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli occhi fissi, come incantata. La donna, andatale vicino, si chinò sopra di lei, e, guardandola pietosamente, prendendole le mani, come per accarezzarla e alzarla a un tempo, le disse: – oh poverina! venite, venite con noi.
– Chi siete? – le domandò Lucia; ma, senza aspettar la risposta, si voltò ancora a don Abbondio, che s’era trattenuto discosto due passi, con un viso, anche lui, tutto compassionevole; lo fissò di nuovo, e esclamò: – lei! è lei? il signor curato? Dove siamo?… Oh povera me! son fuori di sentimento!
– No, no, – rispose don Abbondio: – son io davvero: fatevi coraggio. Vedete? siam qui per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a cavallo…
Lucia, come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò precipitosamente; poi fissò ancora lo sguardo su que’ due visi, e disse: – è dunque la Madonna che vi ha mandati.
– Io credo di sì, – disse la buona donna.
– Ma possiamo andar via, possiamo andar via davvero? – riprese Lucia, abbassando la voce, e con uno sguardo timido e sospettoso. – E tutta quella gente…? – continuò, con le labbra contratte e tremanti di spavento e d’orrore: – e quel signore…! quell’uomo…! Già, me l’aveva promesso…
– È qui anche lui in persona, venuto apposta con noi, – disse don Abbondio: – è qui fuori che aspetta. Andiamo presto; non lo facciamo aspettare, un par suo.
Allora, quello di cui si parlava, spinse l’uscio, e si fece vedere; Lucia, che poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci amiche, non poté reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si strinse alla buona donna, e le nascose il viso in seno. L’innominato, alla vista di quell’aspetto sul quale già la sera avanti non aveva potuto tener fermo lo sguardo, di quell’aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi sull’uscio; nel veder poi quell’atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, – è vero, – esclamò: – perdonatemi!
– Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono? – diceva la buona donna all’orecchio di Lucia.
– Si può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina; che possiamo andar presto, – le diceva don Abbondio. Lucia alzò la testa, guardò l’innominato, e, vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà, disse: – oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia!
– E a voi, cento volte, il bene che mi fanno codeste vostre parole.
Così detto, si voltò, andò verso l’uscio, e uscì il primo. Lucia, tutta rianimata, con la donna che le dava braccio, gli andò dietro; don Abbondio in coda. Scesero la scala, arrivarono all’uscio che metteva nel cortile. L’innominato lo spalancò, andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una certa gentilezza quasi timida (due cose nuove in lui) sorreggendo il braccio di Lucia, l’aiutò ad entrarvi, poi la buona donna. Slegò quindi la mula di don Abbondio, e l’aiutò anche lui a montare.
– Oh che degnazione! – disse questo; e montò molto più lesto che non avesse fatto la prima volta. La comitiva si mosse quando l’innominato fu anche lui a cavallo. La sua fronte s’era rialzata; lo sguardo aveva ripreso la solita espressione d’impero. I bravi che incontrava, vedevan bene sul suo viso i segni d’un forte pensiero, d’una preoccupazione straordinaria; ma non capivano, né potevan capire più in là. Al castello, non si sapeva ancor nulla della gran mutazione di quell’uomo; e per congettura, certo, nessun di coloro vi sarebbe arrivato.
La buona donna aveva subito tirate le tendine della lettiga: prese poi affettuosamente le mani di Lucia, s’era messa a confortarla, con parole di pietà, di congratulazione e di tenerezza. E vedendo come, oltre la fatica di tanto travaglio sofferto, la confusione e l’oscurità degli avvenimenti impedivano alla poverina di sentir pienamente la contentezza della sua liberazione, le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri. Le nominò il paese dove andavano.
– Sì? – disse Lucia, la qual sapeva ch’era poco discosto dal suo. – Ah Madonna santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre!
– La manderemo a cercar subito, – disse la buona donna, la quale non sapeva che la cosa era già fatta.
– Sì, sì; che Dio ve ne renda merito… E voi, chi siete? Come siete venuta…
– M’ha mandata il nostro curato, – disse la buona donna: – perché questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo (che l’abbiamo là in visita, quel sant’uomo), e s’è pentito de’ suoi peccatacci, e vuol mutar vita; e ha detto al cardinale che aveva fatta rubare una povera innocente, che siete voi, d’intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m’ha detto chi possa essere.
Lucia alzò gli occhi al cielo.
– Lo saprete forse voi, – continuò la buona donna: – basta; dunque il signor cardinale ha pensato che, trattandosi d’una giovine, ci voleva una donna per venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato, per sua bontà, è venuto da me…
– Oh! il Signore vi ricompensi della vostra carità!
– Che dite mai, la mia povera giovine? E m’ha detto il signor curato, che vi facessi coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il Signore v’ha salvata miracolosamente…
– Ah sì! proprio miracolosamente; per intercession della Madonna.
– Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v’ha fatto del male, e esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; ché, oltre all’acquistarne merito, vi sentirete anche allargare il cuore.
Lucia rispose con uno sguardo che diceva di sì, tanto chiaro come avrebbero potuto far le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero saputa esprimere.
– Brava giovine! – riprese la donna: – e trovandosi al nostro paese anche il vostro curato (che ce n’è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l’avevo sentito dire ch’era un uomo da poco; ma in quest’occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa.
– E questo… – domandò Lucia, – questo che è diventato buono… chi è?
– Come! non lo sapete? – disse la buona donna, e lo nominò.
– Oh misericordia! – esclamò Lucia. Quel nome, quante volte l’aveva sentito ripetere con orrore in più d’una storia, in cui figurava sempre come in altre storie quello dell’orco! E ora, al pensiero d’essere stata nel suo terribil potere, e d’essere sotto la sua guardia pietosa; al pensiero d’una così orrenda sciagura, e d’una così improvvisa redenzione; a considerare di chi era quel viso che aveva veduto burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come estatica, dicendo solo, ogni poco: – oh misericordia!
– È una gran misericordia davvero! – diceva la buona donna: – dev’essere un gran sollievo per mezzo mondo. A pensare quanta gente teneva sottosopra; e ora, come m’ha detto il nostro curato… e poi, solo a guardarlo in viso, è diventato un santo! E poi si vedon subito le opere.
Dire che questa buona donna non provasse molta curiosità di conoscere un po’ più distintamente la grand’avventura nella quale si trovava a fare una parte, non sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d’una pietà rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità dell’incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a farle una domanda indiscreta, ne oziosa: tutte le sue parole, in quel tragitto, furono di conforto e di premura per la povera giovine.
– Dio sa quant’è che non avete mangiato!
– Non me ne ricordo più… Da un pezzo.
– Poverina! Avrete bisogno di ristorarvi.
– Sì, – rispose Lucia con voce fioca.
– A casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualcosa. Fatevi coraggio, che ormai c’è poco.
Lucia si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come assopita; e allora la buona donna la lasciava in riposo.
Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi. Sentiva ora, molto più che nell’andare, l’incomodo di quel modo di viaggiare, al quale non era molto avvezzo; e specialmente sul principio, nella scesa dal castello al fondo della valle. Il lettighiero, stimolato da’ cenni dell’innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro, tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano all’arcione; e non osava però pregare che s’andasse più adagio, e dall’altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse possibile. Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la mula, secondo l’uso de’ pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un precipizio. “Anche tu, – diceva tra sé alla bestia, – hai quel maledetto gusto d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero!” E tirava la briglia dall’altra parte; ma inutilmente. Sicché, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui. I bravi non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il padrone. “Ma, – rifletteva però, – se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come l’intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s’andassero a immaginare che sia venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano!” Il cipiglio dell’innominato non gli dava fastidio. “Per tenere a segno quelle facce lì, – pensava, – non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch’io; ma perché deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro!”
Basta; s’arrivò in fondo alla scesa, e s’uscì finalmente anche dalla valle. La fronte dell’innominato s’andò spianando. Anche don Abbondio prese una faccia più naturale, sprigionò alquanto la testa di tra le spalle, sgranchì le braccia e le gambe, si mise a stare un po’ più sulla vita, che faceva un tutt’altro vedere, mandò più larghi respiri, e, con animo più riposato, si mise a considerare altri lontani pericoli. “Cosa dirà quel bestione di don Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e con le beffe, figuriamoci se la gli deve parere amara. Ora è quando fa il diavolo davvero. Sta a vedere che se la piglia anche con me, perché mi son trovato dentro in questa cerimonia. Se ha avuto cuore fin d’allora di mandare que’ due demòni a farmi una figura di quella sorte sulla strada, ora poi, chi sa cosa farà! Con sua signoria illustrissima non la può prendere, che è un pezzo molto più grosso di lui; lì bisognerà rodere il freno. Intanto il veleno l’avrà in corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria. Lucia, di ragione, sua signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell’altro poveraccio mal capitato è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che il cencio son diventato io. La sarebbe barbara, dopo tant’incomodi, dopo tante agitazioni, e senza acquistarne merito, che ne dovessi portar la pena io. Cosa farà ora sua signoria illustrissima per difendermi, dopo avermi messo in ballo? Mi può star mallevadore lui che quel dannato non mi faccia un’azione peggio della prima? E poi, ha tanti affari per la testa! mette mano a tante cose! Come si può badare a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. Quelli che fanno il bene, lo fanno all’ingrosso: quand’hanno provata quella soddisfazione, n’hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché hanno quel canchero che li rode. Devo andar io a dire che son venuto qui per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe che volessi tenere dalla parte dell’iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte dell’iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa com’è; e lascia poi fare a Perpetua a mandarla in giro. Purché a monsignore non venga il grillo di far qualche pubblicità, qualche scena inutile, e mettermici dentro anche me. A buon conto, appena siamo arrivati, se è uscito di chiesa, vado a riverirlo in fretta in fretta; se no, lascio le mie scuse, e me ne vo diritto diritto a casa mia. Lucia è bene appoggiata; di me non ce n’è più bisogno; e dopo tant’incomodi, posso pretendere anch’io d’andarmi a riposare. E poi… che non venisse anche curiosità a monsignore di saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto dell’affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche alla mia parrocchia!… Oh! sarà quel che sarà; non vo’ confondermi prima del tempo: n’ho abbastanza de’ guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie. E poi… E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male!”
La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate; passò per mezzo alla folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi si divise. I due a cavallo voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui era la casa del parroco; la lettiga andò avanti verso quella della buona donna.
Don Abbondio fece quello che aveva pensato: appena smontato, fece i più sviscerati complimenti all’innominato, e lo pregò di volerlo scusar con monsignore; ché lui doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari urgenti. Andò a cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato in un cantuccio del salotto, e s’incamminò. L’innominato stette a aspettare che il cardinale tornasse di chiesa.
La buona donna, fatta seder Lucia nel miglior luogo della sua cucina, s’affaccendava a preparar qualcosa da ristorarla, ricusando, con una certa rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse che questa rinnovava ogni tanto.
Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia. E nel vedere la poverina a riaversi a ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con se stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, com’essa diceva, non c’era il gatto nel fuoco. – Tutti s’ingegnano oggi a far qualcosina, – aggiungeva: – meno que’ poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa. Sicché mangiate senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a tiro, e potrete ristorarvi un po’ meglio -. Così detto, ritornò ad accudire al desinare, e ad apparecchiare.
Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l’animo, andava intanto assettandosi, per un’abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita s’intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d’improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: “oh povera me, cos’ho fatto!”
Ma non appena l’ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto, l’angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve un’ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella preghiera; e s’affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse concessa la forza d’adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e l’occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell’uno la ragione d’esser contenta dell’altro. E dietro a quel pensiero, s’andava figurando ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l’opera, saprebbe trovar la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più… Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch’era andata a cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s’alzò, se ci si passa quest’espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso.
Tutt’a un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre. Era la famigliola che tornava di chiesa. Due bambinette e un fanciullo entran saltando; si fermano un momento a dare un’occhiata curiosa a Lucia, poi corrono alla mamma, e le s’aggruppano intorno: chi domanda il nome dell’ospite sconosciuta, e il come e il perché; chi vuol raccontare le maraviglie vedute: la buona donna risponde a tutto e a tutti con un – zitti, zitti -. Entra poi, con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta in viso, il padrone di casa. Era, se non l’abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e de’ contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d’una volta il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in vece di tant’altri…! Con questo, la miglior pasta del mondo. Essendosi trovato presente quando sua moglie era stata pregata dal curato d’intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo ci aveva data la sua approvazione, ma le avrebbe fatto coraggio, se ce ne fosse stato bisogno. E ora che la funzione, la pompa, il concorso, e soprattutto la predica del cardinale avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni sentimenti, tornava a casa con un’aspettativa, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse riuscita, e di trovare la povera innocente salvata.
– Guardate un poco, – gli disse, al suo entrare, la buona donna, accennando Lucia; la quale fece il viso rosso, s’alzò, e cominciava a balbettar qualche scusa. Ma lui, avvicinatosele, l’interruppe facendole una gran festa, e esclamando: – ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma è però una gran cosa d’aver ricevuto un miracolo!
Né si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell’avvenimento, perché aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome.
Accostatosi Poi passo passo alla moglie, che staccava il calderotto dalla catena, le disse sottovoce: – è andato bene ogni cosa?
– Benone: ti racconterò poi tutto.
– Sì, sì; con comodo.
Messo poi subito in tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve l’accompagnò, la fece sedere; e staccata un’ala di quel cappone, gliela mise davanti; si mise a sedere anche lei e il marito, facendo tutt’e due coraggio all’ospite abbattuta e vergognosa, perché mangiasse. Il sarto cominciò, ai primi bocconi, a discorrere con grand’enfasi, in mezzo all’interruzioni de’ ragazzi, che mangiavano ritti intorno alla tavola, e che in verità avevano viste troppe cose straordinarie, per fare alla lunga la sola parte d’ascoltatori. Descriveva le cerimonie solenni, poi saltava a parlare della conversione miracolosa. Ma ciò che gli aveva fatto più impressione, e su cui tornava più spesso, era la predica del cardinale.
– A vederlo lì davanti all’altare, – diceva, – un signore di quella sorte, come un curato…
– E quella cosa d’oro che aveva in testa… – diceva una bambinetta.
– Sta’ zitta. A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano…
– Ho inteso anch’io, – disse l’altra chiacchierina.
– Sta’ zitta! cosa vuoi avere inteso, tu?
– Ho inteso che spiegava il Vangelo in vece del signor curato.
– Sta’ zitta. Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui. E senza mai nominare quel signore, come si capiva che voleva parlar di lui! E poi, per capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lacrime agli occhi. E allora tutta la gente a piangere…
– È proprio vero, – scappò fuori il fanciullo: – ma perché piangevan tutti a quel modo, come bambini?
– Sta’ zitto. E sì che c’è de’ cuori duri in questo paese. E ha fatto proprio vedere che, benché ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore, ed esser contenti: far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti. Perché la disgrazia non è il patire, e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male. E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da pover’uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe far vita scelta, meglio di chi si sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione a sentirlo discorrere; non come tant’altri, fate quello che dico, e non fate quel che fo. E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non son signori, se hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce.
Qui interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: – piglia qui -. Le diede nell’altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: – va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina. E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere.
Lucia fece gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come già da’ discorsi di prima aveva ricevuto un sollievo che un discorso fatto apposta non le avrebbe potuto dare. L’animo attirato da quelle descrizioni, da quelle fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso dall’entusiasmo medesimo del narratore, si staccava da’ pensieri dolorosi di sé; e anche ritornandoci sopra, si trovava più forte contro di essi. Il pensiero stesso del gran sacrifizio, non già che avesse perduto il suo amaro, ma insiem con esso aveva un non so che d’una gioia austera e solenne.
Poco dopo, entrò il curato del paese, e disse d’esser mandato dal cardinale a informarsi di Lucia, ad avvertirla che monsignore voleva vederla in quel giorno, e a ringraziare in suo nome il sarto e la moglie. E questi e quella, commossi e confusi, non trovavan parole per corrispondere a tali dimostrazioni d’un tal personaggio.
– E vostra madre non è ancora arrivata? – disse il curato a Lucia.
– Mia madre! – esclamò questa. Dicendole poi il curato, che l’aveva mandata a prendere, d’ordine dell’arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi, e diede in un dirotto pianto, che durò un pezzo dopo che fu andato via il curato. Quando poi gli affetti tumultuosi che le si erano suscitati a quell’annunzio, cominciarono a dar luogo a pensieri più posati, la poverina si ricordò che quella consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione così inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in quell’ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto. Fatemi tornar salva con mia madre, aveva detto; e queste parole le ricomparvero ora distinte nella memoria. Si confermò più che mai nel proposito di mantener la promessa, e si fece di nuovo, e più amaramente, scrupolo di quel povera me! che le era scappato detto tra sé, nel primo momento.
Agnese infatti, quando si parlava di lei, era già poco lontana. È facile pensare come la povera donna fosse rimasta, a quell’invito così inaspettato, e a quella notizia, necessariamente tronca e confusa, d’un pericolo, si poteva dir, cessato, ma spaventoso; d’un caso terribile, che il messo non sapeva né circostanziare né spiegare; e lei non aveva a che attaccarsi per ispiegarlo da sé. Dopo essersi cacciate le mani ne’ capelli, dopo aver gridato più volte: – ah Signore! ah Madonna! -, dopo aver fatte al messo varie domande, alle quali questo non sapeva che rispondere, era entrata in fretta e in furia nel baroccio, continuando per la strada a esclamare e interrogare, senza profitto. Ma, a un certo punto, aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio adagio, mettendo avanti, a ogni passo, il suo bastone. Dopo un – oh! – di tutt’e due le parti, lui s’era fermato, lei aveva fatto fermare, ed era smontata; e s’eran tirati in disparte in un castagneto che costeggiava la strada. Don Abbondio l’aveva ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere. La cosa non era chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era affatto in salvo; e respirò.
Dopo, don Abbondio era voluto entrare in un altro discorso, e darle una lunga istruzione sulla maniera di regolarsi con l’arcivescovo, se questo, com’era probabile, avesse desiderato di parlar con lei e con la figliuola; e soprattutto che non conveniva far parola del matrimonio… Ma Agnese, accorgendosi che il brav’uomo non parlava che per il suo proprio interesse, l’aveva piantato, senza promettergli, anzi senza risolver nulla; ché aveva tutt’altro da pensare. E s’era rimessa in istrada.
Finalmente il baroccio arriva, e si ferma alla casa del sarto. Lucia s’alza precipitosamente; Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l’una dell’altra. La moglie del sarto, ch’era la sola che si trovava lì presente, fa coraggio a tutt’e due, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre discreta, le lascia sole, dicendo che andava a preparare un letto per loro; che aveva il modo, senza incomodarsi; ma che, in ogni caso, tanto lei, come suo marito, avrebbero piuttosto voluto dormire in terra, che lasciarle andare a cercare un ricovero altrove.
Passato quel primo sfogo d’abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle sapere i casi di Lucia, e questa si mise affannosamente a raccontarglieli. Ma, come il lettore sa, era una storia che nessuno la conosceva tutta; e per Lucia stessa c’eran delle parti oscure, inesplicabili affatto. E principalmente quella fatale combinazione d’essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada, per l’appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la madre e la figlia facevan cento congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza neppure andarci vicino.
In quanto all’autor principale della trama, tanto l’una che l’altra non potevano fare a meno di non pensare che fosse don Rodrigo.
– Ah anima nera! ah tizzone d’inferno! – esclamava Agnese: – ma verrà la sua ora anche per lui. Domeneddio lo pagherà secondo il merito; e allora proverà anche lui…
– No, no, mamma; no! – interruppe Lucia: – non gli augurate di patire, non l’augurate a nessuno! Se sapeste cosa sia patire! Se aveste provato! No, no! preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, come ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo.
Il ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così crudeli, la fece più d’una volta restare a mezzo; più d’una volta disse che non le bastava l’animo di continuare, e dopo molte lacrime, riprese la parola a stento. Ma un sentimento diverso la tenne sospesa, a un certo punto del racconto: quando fu al voto. Il timore che la madre le desse dell’imprudente e della precipitosa; e che, come aveva fatto nell’affare del matrimonio, mettesse in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse fargliela trovar giusta per forza; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir pubblica, cosa che Lucia, solamente a pensarci, si sentiva venire il viso rosso; anche una certa vergogna della madre stessa, una ripugnanza inesplicabile a entrare in quella materia; tutte queste cose insieme fecero che nascose quella circostanza importante, proponendosi di farne prima la confidenza al padre Cristoforo. Ma come rimase allorché, domandando di lui, si sentì rispondere che non c’era più, ch’era stato mandato in un paese lontano lontano, in un paese che aveva un certo nome!
– E Renzo? – disse Agnese.
– È in salvo, n’è vero? – disse ansiosamente Lucia.
– Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia ricoverato sul bergamasco; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora non ha mai fatto saper nulla. Che non abbia ancora trovata la maniera.
– Ah, se è in salvo, sia ringraziato il Signore! – disse Lucia; e cercava di cambiar discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la comparsa del cardinale arcivescovo.
Questo, tornato di chiesa, dove l’abbiam lasciato, sentito dall’innominato che Lucia era arrivata, sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo sedere a destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di dare occhiate a quell’aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento, e di paragonarlo con l’idea che da lungo tempo s’eran fatta del personaggio.
Finito di desinare, loro due s’eran ritirati di nuovo insieme. Dopo un colloquio che durò molto più del primo, l’innominato era partito per il suo castello, su quella stessa mula della mattina; e il cardinale, fatto chiamare il curato, gli aveva detto che desiderava d’esser condotto alla casa dov’era ricoverata Lucia.
– Oh! monsignore, – aveva risposto il curato, – non s’incomodi: manderò io subito ad avvertire che venga qui la giovine, la madre, se è arrivata, anche gli ospiti, se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vossignoria illustrissima.
– Desidero d’andar io a trovarli, – aveva replicato Federigo.
– Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò io subito a chiamarli: è cosa d’un momento, – aveva insistito il curato guastamestieri (buon uomo del resto), non intendendo che il cardinale voleva con quella visita rendere onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità e al suo proprio ministero in un tempo. Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo desiderio, l’inferiore s’inchinò e si mosse.
Quando i due personaggi furon veduti spuntar nella strada, tutta la gente che c’era andò verso di loro; e in pochi momenti n’accorse da ogni parte, camminando loro ai fianchi chi poteva, e gli altri dietro, alla rinfusa. Il curato badava a dire: – via, indietro, ritiratevi; ma! ma! – Federigo gli diceva: – lasciateli fare, – e andava avanti, ora alzando la mano a benedir la gente, ora abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivan tra’ piedi. Così arrivarono alla casa, e c’entrarono: la folla rimase ammontata al di fuori. Ma nella folla si trovava anche il sarto, il quale era andato dietro come gli altri, con gli occhi fissi e con la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con che strepito, gridando e rigridando: – lasciate passare chi ha da passare -; e entrò.
Agnese e Lucia sentirono un ronzìo crescente nella strada; mentre pensavano cosa potesse essere, videro l’uscio spalancarsi, e comparire il porporato col parroco.
– È quella? – domandò il primo al secondo; e, a un cenno affermativo, andò verso Lucia, ch’era rimasta lì con la madre, tutt’e due immobili e mute dalla sorpresa e dalla vergogna. Ma il tono di quella voce, l’aspetto, il contegno, e soprattutto le parole di Federigo l’ebbero subito rianimate. – Povera giovine, – cominciò: – Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v’ha anche fatto vedere che non aveva levato l’occhio da voi, che non v’aveva dimenticata. V’ha rimessa in salvo; e s’è servito di voi per una grand’opera, per fare una gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo.
Qui comparve nella stanza la padrona, la quale, al rumore, s’era affacciata anch’essa alla finestra, e avendo veduto chi le entrava in casa, aveva sceso le scale, di corsa, dopo essersi raccomodata alla meglio; e quasi nello stesso tempo, entrò il sarto da un altr’uscio. Vedendo avviato il discorso, andarono a riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto. Il cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai conforti qualche domanda, per veder se nelle risposte potesse trovar qualche congiuntura di far del bene a chi aveva tanto patito.
– Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un po’ dalla parte de’ poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per cavarsene loro, – disse Agnese, animata dal contegno così famigliare e amorevole di Federigo, e stizzita dal pensare che il signor don Abbondio, dopo aver sempre sacrificati gli altri, pretendesse poi anche d’impedir loro un piccolo sfogo, un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso raro, n’era venuta l’occasione.
– Dite pure tutto quel che pensate, – disse il cardinale: – parlate liberamente.
– Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa non sarebbe andata così.
Ma facendole il cardinale nuove istanze perché si spiegasse meglio, quella cominciò a trovarsi impicciata a dover raccontare una storia nella quale aveva anch’essa una parte che non si curava di far sapere, specialmente a un tal personaggio. Trovò però il verso d’accomodarla con un piccolo stralcio: raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!); e saltò all’attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati avvertiti, avevano potuto scappare. – Ma sì, – soggiunse e concluse: – scappare per inciamparci di nuovo. Se in vece il signor curato ci avesse detto sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce n’andavamo via subito, tutti insieme, di nascosto, lontano, in luogo che né anche l’aria non l’avrebbe saputo. Così s’è perduto tempo; ed è nato quel che è nato.
– Il signor curato mi renderà conto di questo fatto, – disse il cardinale.
– No, signore, no, signore, – disse subito Agnese: – non ho parlato per questo: non lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.
Ma Lucia, non contenta di quella maniera di raccontar la storia, soggiunse: – anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà del Signore che la cosa dovesse riuscire.
– Che male avete potuto far voi, povera giovine? – disse Federigo.
Lucia, malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse dicendo: – abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati.
– Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo, – disse Federigo: – perché, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar se medesimo?
Domandò allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia stava zitta, con la testa e gli occhi bassi) ch’era scappato dal suo paese, ne provò e ne mostrò maraviglia e dispiacere; e volle sapere il perché.
Agnese raccontò alla meglio tutto quel poco che sapeva della storia di Renzo.
– Ho sentito parlare di questo giovine, – disse il cardinale: – ma come mai uno che si trovò involto in affari di quella sorte, poteva essere in trattato di matrimonio con una ragazza così?
– Era un giovine dabbene, – disse Lucia, facendo il viso rosso, ma con voce sicura.
– Era un giovine quieto, fin troppo, – soggiunse Agnese: – e questo lo può domandare a chi si sia, anche al signor curato. Chi sa che imbroglio avranno fatto laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni.
È vero pur troppo, – disse il cardinale: – m’informerò di lui senza dubbio -: e fattosi dire nome e cognome del giovine, ne prese l’appunto sur un libriccin di memorie. Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese tra pochi giorni, che allora Lucia potrebbe venir là senza timore, e che intanto penserebbe lui a provvederla d’un luogo dove potesse esser al sicuro, fin che ogni cosa fosse accomodata per il meglio.
Si voltò quindi ai padroni di casa, che vennero subito avanti. Rinnovò i ringraziamenti che aveva fatti fare dal curato, e domandò se sarebbero stati contenti di ricoverare, per que’ pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro mandate.
– Oh! sì signore, – rispose la donna, con un tono di voce e con un viso ch’esprimeva molto più di quell’asciutta risposta, strozzata dalla vergogna. Ma il marito, messo in orgasmo dalla presenza d’un tale interrogatore, dal desiderio di farsi onore in un’occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d’idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale accennava già d’avere interpretato il silenzio: il pover’uomo aprì la bocca, e disse: – si figuri! – Altro non gli volle venire. Cosa, di cui non solo rimase avvilito sul momento; ma sempre poi quella rimembranza importuna gli guastava la compiacenza del grand’onore ricevuto. E quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi col pensiero in quella circostanza, gli venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell’insulso si figuri! Ma, come dice un antico proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse.
Il cardinale partì, dicendo: – la benedizione del Signore sia sopra questa casa.
Domandò poi la sera al curato come si sarebbe potuto in modo convenevole ricompensare quell’uomo, che non doveva esser ricco, dell’ospitalità costosa, specialmente in que’ tempi. Il curato rispose che, per verità, né i guadagni della professione, né le rendite di certi campicelli, che il buon sarto aveva del suo, non sarebbero bastate, in quell’annata, a metterlo in istato d’esser liberale con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli anni addietro, si trovava de’ più agiati del contorno, e poteva far qualche spesa di più, senza dissesto, come certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente, non ci sarebbe stato verso di fargli accettare nessuna ricompensa.
– Avrà probabilmente, – disse il cardinale, – crediti con gente che non può pagare.
– Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga con quel che le avanza della raccolta: l’anno scorso, non avanzò nulla; in questo, tutti rimangono indietro del necessario.
– Ebbene, – disse Federigo: – prendo io sopra di me tutti que’ debiti; e voi mi farete il piacere d’aver da lui la nota delle partite, e di saldarle.
– Sarà una somma ragionevole.
– Tanto meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più bisognosi, che non hanno debiti perché non trovan credenza.
– Eh, pur troppo! Si fa quel che si può; ma come arrivare a tutto, in tempi di questa sorte?
– Fate che lui li vesta a mio conto, e pagatelo bene. Veramente, in quest’anno, mi par rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso particolare.
Non vogliam però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar brevemente come la terminasse l’innominato.
Questa volta, la nuova della sua conversione l’aveva preceduto nella valle; vi s’era subito sparsa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un’ansietà, un cruccio, un susurro. Ai primi bravi, o servitori (era tutt’uno) che vide, accennò che lo seguissero: e così di mano in mano. Tutti venivan dietro, con una sospensione nuova, e con la suggezione solita; finché, con un seguito sempre crescente, arrivò al castello. Accennò a quelli che si trovavan sulla porta, che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era il segno usato, al quale accorrevano tutti que’ suoi che l’avessero sentito. In un momento, quelli ch’erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce, e s’univano ai già radunati, guardando tutti il padrone.
– Andate ad aspettarmi nella sala grande, – disse loro; e dall’alto della sua cavalcatura, gli stava a veder partire. Ne scese poi, la menò lui stesso alla stalla, e andò dov’era aspettato. Al suo apparire, cessò subito un gran bisbiglìo che c’era; tutti si ristrinsero da una parte, lasciando voto per lui un grande spazio della sala: potevano essere una trentina.
L’innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: – ascoltate tutti, e nessuno parli, se non è interrogato. Figliuoli! la strada per la quale siamo andati finora, conduce nel fondo dell’inferno. Non è un rimprovero ch’io voglia farvi, io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che v’ho da dire. Dio misericordioso m’ha chiamato a mutar vita; e io la muterò, l’ho già mutata: così faccia con tutti voi. Sappiate dunque, e tenete per fermo che son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge. Levo a ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi m’intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v’era comandato. E tenete per fermo ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con la mia protezione, al mio servizio. Chi vuol restare a questi patti, sarà per me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui non avessi mangiato per satollar l’ultimo di voi, con l’ultimo pane che mi rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di salario, e un regalo di più: potrà andarsene; ma non metta più piede qui: quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia aperte. Pensateci questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi la risposta; e allora vi darò nuovi ordini. Per ora, ritiratevi, ognuno al suo posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.
Qui finì, e tutto rimase in silenzio. Per quanto vari e tumultuosi fossero i pensieri che ribollivano in que’ cervellacci, non ne apparve di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione d’una volontà con la quale non c’era da ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. A nessuno di loro passò neppur per la mente che, per esser lui convertito, si potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr’uomo. Vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con la testa alta, e con la spada in pugno. Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente quelli ch’eran nati sul suo, ed erano una gran parte) un’affezione come d’uomini ligi; avevan poi tutti una benevolenza d’ammirazione; e alla sua presenza sentivano una specie di quella, dirò pur così, verecondia, che anche gli animi più zotici e più petulanti provano davanti a una superiorità che hanno già riconosciuta. Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca, erano bensì odiose a’ loro orecchi, ma non false né affatto estranee ai loro intelletti: se mille volte se n’eran fatti beffe, non era già perché non le credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a pensarci sul serio. E ora, a veder l’effetto di quella paura in un animo come quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se n’attaccasse, almeno per qualche tempo. S’aggiunga a tutto ciò, che quelli tra loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per i primi la gran nuova, avevano insieme veduto, e avevano anche riferito la gioia, la baldanza della popolazione, l’amore e la venerazione per l’innominato, ch’erano entrati in luogo dell’antico odio e dell’antico terrore. Di maniera che, nell’uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche quando loro medesimi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la maraviglia, l’idolo d’una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre capo.
Stavano adunque sbalorditi, incerti l’uno dell’altro, e ognun di sé. Chi si rodeva, chi faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego; chi s’esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; chi anche, tocco da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; chi, senza risolver nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e d’acquistar tempo: nessuno fiatò. E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.
Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno.
Andò dunque in camera, s’accostò a quel letto in cui la notte avanti aveva trovate tante spine; e vi s’inginocchiò accanto, con l’intenzione di pregare. Trovò in fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch’era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l’una dopo l’altra come sgomitolandosi. Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una certa dolcezza in quel ritorno materiale all’abitudini dell’innocenza; un inasprimento di dolore al pensiero dell’abisso che aveva messo tra quel tempo e questo; un ardore d’arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a uno stato il più vicino all’innocenza, a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo. Rizzatosi poi, andò a letto, e s’addormentò immediatamente.
Così terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il nostro anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno de’ particolari; giacché il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non dicono se non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò mirabilmente vita, e per sempre. E quanti son quelli che hanno letto i libri di que’ due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro. E chi sa se, nella valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l’abilità di trovarla, sarà rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da quel tempo in poi!

CAPITOLO XXV

Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di lei, dell’innominato, dell’arcivescovo e d’un altro tale, che, quantunque gli piacesse molto d’andar per le bocche degli uomini, n’avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo.
Non già che prima d’allora non si parlasse de’ fatti suoi; ma eran discorsi rotti, segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene tra di loro, per aprirsi sur un tale argomento. E anche, non ci mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto. Ma ora, chi si sarebbe tenuto d’informarsi, e di ragionare d’un fatto così strepitoso, in cui s’era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava unito a tanta autorità; l’altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per dir così, a render l’armi, e a chiedere il riposo. A tali paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po’ piccino. Allora si capiva da tutti cosa fosse tormentar l’innocenza per poterla disonorare, perseguitarla con un’insistenza così sfacciata, con sì atroce violenza, con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in quell’occasione, una rivista di tant’altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d’accordo con tutti. Era un susurro, un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que’ bravi che colui aveva d’intorno.
Una buona parte di quest’odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e cortigiani. Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perché, se non aveva i bravi, aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari, non s’usava tanti riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche tempo, stimaron bene di non farsi veder per le strade.
Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall’avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette rintanato nel suo palazzotto, solo co’ suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente, forse, poiché le cose erano andate tant’avanti, sarebbe rimasto apposta per affrontarlo, anzi per cercar l’occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno de’ più arditi; ma chi lo cacciò, fu l’essersi saputo per certo, che il cardinale veniva da quelle parti. Il conte zio, il quale di tutta quella storia non sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in pubblico dal cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci fosse incamminato. L’avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto minutamente; perché era un’occasione importante di far vedere in che stima fosse tenuta la famiglia da una primaria autorità. Per levarsi da un impiccio così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori, davanti e di dietro; e, lasciato l’ordine che il resto della servitù venisse poi in seguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po’ lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.
Intanto, il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie del territorio di Lecco. Il giorno in cui doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran parte degli abitanti erano andati sulla strada a incontrarlo. All’entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne, c’era un arco trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il traverso, rivestito di paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di pugnitopo e d’agrifoglio, distinti di bacche scarlatte; la facciata della chiesa era parata di tappezzerie; al davanzale d’ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario che fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo. Verso le ventidue, ch’era l’ora in cui s’aspettava il cardinale, quelli ch’eran rimasti in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte, s’avviarono anche loro a incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar della gente innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccargli a render conto del matrimonio.
Quand’ecco si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo a cui si trovava nella sua lettiga, col suo seguito d’intorno; perché di tutto questo non si vedeva altro che un indizio in aria, al di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata dal cappellano che cavalcava una mula. La gente che andava con don Abbondio, s’affrettò alla rinfusa, a raggiunger quell’altra: e lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: – adagio; in fila; cosa fate? – si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: – è una babilonia, è una babilonia, – entrò in chiesa, intanto ch’era vota; e stette lì ad aspettare.
Il cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e ricevendone dalle bocche della gente, che quelli del seguito avevano un bel da fare a tenere un po’ indietro. Per esser del paese di Lucia, avrebbe voluto quella gente fare all’arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era facile, perché era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che potevano. Già sul principio stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la calca e l’impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della sua vita; e alcuni gentiluomini che gli eran più vicini, avevano sfoderate le spade, per atterrire e respinger la folla. Tanto c’era in que’ costumi di scomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza a un vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar vicino all’ammazzare. E quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e d’animo, non l’avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta fino all’altar maggiore. D’allora in poi, in tante visite episcopali ch’ebbe a fare, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli passati da lui.
Entrò anche in questa come poté; andò all’altare e, dopo essere stato alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso al popolo, sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro salvezza, e come dovessero disporsi alle funzioni del giorno dopo. Ritiratosi poi nella casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse ch’era un giovine un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico. Ma, a più particolari e precise domande, dovette rispondere ch’era un galantuomo, e che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che avevan detto.
– In quanto alla giovine, – riprese il cardinale, – pare anche a voi che possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua?
– Per ora, – rispose don Abbondio, – può venire e stare, come vuole: dico, per ora; ma, – soggiunse poi con un sospiro, – bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.
– Il Signore è sempre vicino, – disse il cardinale: – del resto, penserò io a metterla al sicuro -. E diede subito ordine che, il giorno dopo, si spedisse di buon’ora la lettiga, con una scorta, a prender le due donne.
Don Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato de’ due giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di maritarli. “Dunque non sa niente, – diceva tra sé: – Agnese è stata zitta: miracolo! È vero che s’hanno a tornare a vedere; ma le daremo un’altra istruzione, le daremo”. E non sapeva, il pover’uomo, che Federigo non era entrato in quell’argomento, appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni.
Ma i pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenuti inutili: dopo che l’aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo raccontare.
Le due donne, in que’ pochi giorni ch’ebbero a passare nella casuccia ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli occhi della gente. Agnese andava un po’ fuori, un po’ lavorava in compagnia della figlia. I loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt’e due eran preparate a una separazione; giacché la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di questa separazione? L’avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di loro principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro, dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze, ne parlava e ne riparlava alla figlia, per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore il sentire, o pena il rispondere. Il suo gran segreto l’aveva sempre tenuto in sé; e, inquietata bensì dal dispiacere di fare a una madre così buona un sotterfugio, che non era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e da’ vari timori che abbiam detto di sopra, andava d’oggi in domani, senza dir nulla. I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non n’aveva; s’era abbandonata alla Provvidenza. Cercava dunque di lasciar cadere, o di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di non aver più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, fuorché di poter presto riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto veniva opportunamente a troncar le parole.
– Sai perché ti par così? – diceva Agnese: – perché hai tanto patito, e non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al Signore; e se… Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di speranza; e allora mi saprai dire se non pensi più a nulla -. Lucia baciava la madre, e piangeva.
Del resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand’amicizia: e dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri son buona gente? Agnese specialmente faceva di gran chiacchiere con la padrona. Il sarto poi dava loro un po’ di svago con delle storie, e con de’ discorsi morali: e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di Bovo d’Antona o de’ Padri del deserto.
Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d’alto affare; don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell’anonimo. Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c’era di reale, o di vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta.
Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell’occasione, si diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza, con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l’imbasciata, che trovasse maniera di scusarla. Finché s’era trattato di gente alla buona che cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione. Fece tanti versi, tant’esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così, e ch’era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti – sicuro, sicuro.
Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand’accoglienza, e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva. E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s’era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s’esibì di prender la giovine in casa, dove, senz’essere addetta ad alcun servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l’altre donne ne’ loro lavori. E soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.
Oltre il bene chiaro e immediato che c’era in un’opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n’aveva gran bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s’era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri… Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de’ casi, è di non metterli a parte del disegno.
La madre e la figlia si guardarono in viso. Nella dolorosa necessità di dividersi, l’esibizione parve a tutt’e due da accettarsi, se non altro per esser quella villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla peggio de’ peggi, si ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura. Visto, l’una negli occhi dell’altra, il consenso, si voltaron tutt’e due a donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore.
Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario, nell’occasioni d’importanza. Trattandosi d’una di questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l’ortografia; ch’era una delle molte cose che aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo fu due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per ricondur le donne al loro paese.
Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il cardinale. C’era ordine d’introdurle subito: il cappellano, che fu il primo a vederle, l’eseguì, trattenendole solo quant’era necessario per dar loro, in fretta in fretta, un po’ d’istruzione sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di nascosto a lui. Era per il pover’uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al cardinale, su quel particolare: – tutto, – diceva con gli altri della famiglia, – per la troppa bontà di quel benedett’uomo; per quella gran famigliarità -. E raccontava d’aver perfino sentito più d’una volta co’ suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no.
Stava in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli affari della parrocchia: dimodoché questo non ebbe campo di dare anche lui, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti, poté dar loro d’occhio, per accennare ch’era contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall’altra, Agnese si cavò di seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo: – è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si devon conoscer tutti. Quand’avrà letto, vedrà.
– Bene, – disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da’ fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia c’era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall’insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di donna Prassede, non n’abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle meglio.
– Prendete in pace anche questa separazione, e l’incertezza in cui vi trovate, – soggiunse poi: – confidate che sia per finir presto, e che il Signore voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse indirizzate; ma tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi -. Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a tutt’e due; le benedisse, e le lasciò andare. Appena fuori, si trovarono addosso uno sciame d’amici e d’amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le condusse a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una gara di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal dispiacere, sentendo che Lucia se n’anderebbe il giorno dopo. Gli uomini gareggiavano nell’offrir servizi; ognuno voleva star quella notte a far la guardia alla casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo credé bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno.
Tante accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non s’imbrogliava così per poco. Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia, distraendola alquanto da’ pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastono, le si risvegliavano, su quell’uscio, in quelle stanzucce, alla vista d’ogni oggetto.
Al tocco della campana che annunziava vicino il cominciar delle funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne un’altra passeggiata trionfale.
Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, – signor curato, – cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso lungo e serio: – signor curato; perché non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?
“Hanno votato il sacco stamattina coloro”, pensò don Abbondio; e rispose borbottando: – monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.
– Domando, – riprese il cardinale, – se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.
– Veramente… se vossignoria illustrissima sapesse… che intimazioni… che comandi terribili ho avuti di non parlare… – E restò lì senza concludere, in un cert’atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più.
– Ma! – disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: – è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.
– Monsignore, – disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, – non ho già voluto dire… Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare… Però, però, dico… so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto… Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.
– Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
– E non avete avuto altro motivo? – domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
– Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, – rispose questo: – sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio.
– E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso?
– Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita…
– E quando vi siete presentato alla Chiesa, – disse, con accento ancor più grave, Federigo, – per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: – monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla.
– E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.
“Anche questi santi son curiosi, – pensava intanto don Abbondio: – in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote”. E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma.
– Torno a dire, monsignore, – rispose dunque, – che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare.
– E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E tacque in atto di chi aspetta.

 

 

CAPITOLO XXVI

A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
– Voi non rispondete? – riprese il cardinale. – Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque maniera poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta. Vedete dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete ubbidito all’iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva. L’avete ubbidita puntualmente: s’era fatta vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell’agio i suoi disegni d’insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non parlavate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati de’ pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo -. E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una risposta.
“Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone”, pensava don Abbondio; ma non dava segno d’aver nulla da dire; onde il cardinale riprese: – se è vero, che abbiate detto a que’ poverini ciò che non era, per tenerli nell’ignoranza, nell’oscurità, in cui l’iniquità li voleva… Dunque lo devo credere; dunque non mi resta che d’arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che v’ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V’ha condotto… ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono… v’ha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.
“Ecco come vanno le cose, – diceva ancora tra sé don Abbondio: – a quel satanasso, – e pensava all’innominato, – le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi”. E ad alta voce, disse: – ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?
– E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l’iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de’ colpi da dare, ma non de’ comandi; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva separare; avreste prestato a quegl’innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio, perché si sarebbe andati per la sua strada: avendone presa un’altra, ne restate mallevadore voi; e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che non era aperta alcuna via di scampo, quand’aveste voluto guardarvi d’intorno, pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que’ vostri poverini, quando fossero stati maritati, avrebbero pensato da sé al loro scampo, eran disposti a fuggire dalla faccia del potente, s’eran già disegnato il luogo di rifugio. Ma anche senza questo, non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il quale, come mai avrebbe quest’autorità di riprendervi d’aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l’obbligo d’aiutarvi ad adempirlo? Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo dell’impedimento che un’infame violenza metteva all’esercizio del vostro ministero?
“I pareri di Perpetua!” pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a que’ discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di que’ bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi.
– Come non avete pensato, – proseguiva questo, – che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c’ero io, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita? Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?
“Proprio le ragioni di Perpetua”, pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
– Ma voi, – proseguì e concluse il cardinale, – non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?
– Gli è perché le ho viste io quelle facce, – scappò detto a don Abbondio; – le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto.
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: “ora vien la grandine”. Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell’uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.
– Pur troppo! – disse Federigo, – tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri l’esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov’è mancato l’esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono.
“Oh che sant’uomo! ma che tormento! – pensava don Abbondio: – anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé”. Disse poi ad alta voce: – oh, monsignore! che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? – E tra sé soggiunse: “anche troppo”.
– Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, – disse Federigo, – perché Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch’io, basta a confondermi. Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.
– Tutto casca addosso a me, – disse don Abbondio: – ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essersi introdotte in casa mia, a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.
– Me l’hanno detto, figliuolo: ma questo m’accora, questo m’atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate materia d’accusa da ciò che dovrebb’esser parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? e vi sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso dell’oppresso, la querela dell’afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale; ma noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione d’amar queste persone (e già tante ragioni n’avete), che v’abbian dato occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v’abbian dato un mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se v’avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d’amarli, appunto per questo. Amateli perché hanno patito, perché patiscono, perché son vostri, perché son deboli, perché avete bisogno d’un perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro preghiera.
Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
– Ora, – proseguì questo, – uno fuggitivo da casa sua, l’altra in procinto d’abbandonarla, tutt’e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne alcuna nell’avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette, pregatelo che le faccia nascere.
– Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, – rispose don Abbondio, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
– Ah sì, figliuolo, sì! – esclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto, concluse: – lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Tutt’e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non fate che m’abbia a chieder conto, in quel giorno, d’avervi mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.
Qui l’anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di que’ due personaggi, né Lucia il solo argomento de’ loro abboccamenti; ma che lui s’è ristretto a questo, per non andar lontano dal soggetto principale del racconto. E che, per lo stesso motivo, non farà menzione d’altre cose notabili, dette da Federigo in tutto il corso della visita, né delle sue liberalità, né delle discordie sedate, degli odi antichi tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (cosa ch’era pur troppo più frequente) sopiti, né di qualche bravaccio o tirannello ammansato, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali ce n’era sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi dove quell’uomo eccellente facesse qualche soggiorno.
Dice poi, che, la mattina seguente, venne donna Prassede, secondo il fissato, a prender Lucia, e a complimentare il cardinale, il quale gliela lodò, e raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che pianti; e uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese, con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma i congedi con la madre non eran gli ultimi; perché donna Prassede aveva detto che si starebbe ancor qualche giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana; e Agnese promise alla figlia d’andar là a trovarla, a dare e a ricevere un più doloroso addio.
Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello dell’innominato. Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d’oro ch’eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell’uso che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una delle fortune più desiderate. Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che maraviglia; e le presentò il rotolo, ch’essa prese, senza far gran complimenti. – Dio gliene renda merito, a quel signore, – disse: – e vossignoria illustrissima lo ringrazi tanto tanto. E non dica nulla a nessuno, perché questo è un certo paese… Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a chiacchierare di queste cose; ma… lei m’intende.
Andò a casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo, e quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti di que’ ruspi, de’ quali non aveva forse mai visto più d’uno per volta, e anche di rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli lì tutti, ché ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l’andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone. Il resto di quel giorno, non fece altro che mulinare, far disegni sull’avvenire, e sospirar l’indomani. Andata a letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que’ cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All’alba, s’alzò e s’incamminò subito verso la villa, dov’era Lucia.
Questa, dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella gran ripugnanza a parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d’aprirsene con la madre in quell’abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l’ultimo.
Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a voce bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi sentire, cominciò: – ho da dirti una gran cosa; – e le raccontò l’inaspettata fortuna.
– Iddio lo benedica, quel signore, – disse Lucia: – così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.
– Come? – rispose Agnese: – non vedi quante cose possiamo fare, con tanti danari? Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perché Renzo, da che cominciò a discorrerti, l’ho sempre riguardato come un mio figliuolo. Tutto sta che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non ha mai fatto saper nulla: ma eh! deve andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per me, avrei avuto caro di lasciar l’ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare d’averlo vicino colui, m’è venuto in odio il mio paese: e con voi altri io sto per tutto. Ero disposta, fin d’allora, a venir con voi altri, anche in capo al mondo; e son sempre stata di quel parere; ma senza danari come si fa? Intendi ora? Que’ quattro, che quel poverino aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta la giustizia, e ha spazzato ogni cosa; ma, per ricompensa, il Signore ha mandato la fortuna a noi. Dunque, quando avrà trovato il bandolo di far sapere se è vivo, e dov’è, e che intenzioni ha, ti vengo a prender io a Milano; io ti vengo a prendere. Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le disgrazie fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos’è viaggiare. Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire Alessio di Maggianico: ché, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c’è: vengo con lui: già la spesa la facciamo noi, e… intendi?
Ma vedendo che, in vece d’animarsi, Lucia s’andava accorando, e non dimostrava che una tenerezza senz’allegria, lasciò il discorso a mezzo, e disse: – ma cos’hai? non ti pare?
– Povera mamma! – esclamò Lucia, gettandole un braccio al collo, e nascondendo il viso nel seno di lei.
– Cosa c’è? – domandò di nuovo ansiosamente la madre.
– Avrei dovuto dirvelo prima, – rispose Lucia, alzando il viso, e asciugandosi le lacrime; – ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.
– Ma dì su, dunque.
– Io non posso più esser moglie di quel poverino!
– Come? come?
Lucia, col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi racconta una cosa che, quand’anche dispiacesse, non si può cambiare, rivelò il voto; e insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non aver parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e d’aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.
Agnese era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo proprio; voleva dirle: cos’hai fatto? ma le pareva che sarebbe un prendersela col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipinger co’ più vivi colori quella notte, la desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, ad Agnese veniva anche in mente questo e quell’esempio, che aveva sentito raccontar più volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Dopo esser rimasta un poco come incantata, disse: – e ora cosa farai?
– Ora, – rispose Lucia, – tocca al Signore a pensarci; al Signore e alla Madonna. Mi son messa nelle lor mani: non m’hanno abbandonata finora; non m’abbandoneranno ora che… La grazia che chiedo per me al Signore, la sola grazia, dopo la salvazion dell’anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me la concederà. Quel giorno… in quella carrozza… ah Vergine santissima!… quegli uomini!… chi m’avrebbe detto che mi menavano da colui che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?
– Ma non parlarne subito a tua madre! – disse Agnese con una certa stizzetta temperata d’amorevolezza e di pietà.
– Compatitemi; non avevo cuore… e che sarebbe giovato d’affliggervi qualche tempo prima?
– E Renzo? – disse Agnese, tentennando il capo. `
– Ah! – esclamò Lucia, riscotendosi, – io non ci devo pensar più a quel poverino. Già si vede che non era destinato… Vedete come pare che il Signore ci abbia voluti proprio tener separati. E chi sa…? ma no, no: l’avrà preservato Lui da’ pericoli, e lo farà esser fortunato anche di più, senza di me.
– Ma intanto, – riprese la madre, – se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non gli sia accaduta qualche disgrazia, con que’ danari io ci avevo trovato rimedio.
– Ma que’ danari, – replicò Lucia, – ci sarebbero venuti, s’io non avessi passata quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà -. E la parola morì nel pianto.
A quell’argomento inaspettato, Agnese rimase lì pensierosa. Dopo qualche momento, Lucia, rattenendo i singhiozzi, riprese: – ora che la cosa è fatta, bisogna adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi… bisogna bene che quel poverino lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; ché voi ci potete pensare. Quando saprete dov’è, fategli scrivere, trovate un uomo… appunto vostro cugino Alessio, che è un uomo prudente e caritatevole, e ci ha sempre voluto bene, e non ciarlerà: fategli scriver da lui la cosa com’è andata, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che metta il cuore in pace, e ch’io non posso mai mai esser di nessuno. E fargli capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio fatto voto. Quando saprà che ho promesso alla Madonna… ha sempre avuto il timor di Dio. E voi, la prima volta che avrete le sue nuove, fatemi scrivere, fatemi saper che è sano; e poi… non mi fate più saper nulla.
Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come desiderava.
– Vorrei dirvi un’altra cosa, – riprese questa: – quel poverino, se non avesse avuto la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto ciò che gli è accaduto. È per il mondo; gli hanno troncato il suo avviamento, gli hanno portato via la sua roba, que’ risparmi che aveva fatti, poverino, sapete perché… E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma! giacché il Signore ci ha mandato tanto bene, e quel poverino, è proprio vero che lo riguardavate come vostro… sì, come un figliuolo, oh! fate mezzo per uno; ché, sicuro, Iddio non ci mancherà. Cercate un’occasione fidata, e mandateglieli, ché sa il cielo come n’ha bisogno!
– Ebbene, cosa credi? – rispose Agnese: – glieli manderò davvero. Povero giovine! Perché pensi tu ch’io fossi così contenta di que’ danari? Ma…! io era proprio venuta qui tutta contenta. Basta, io glieli manderò, povero Renzo! ma anche lui… so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi n’ha bisogno; ma questi non saranno quelli che lo faranno ingrassare.
Lucia ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza, con una gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l’avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse.
– E senza di te, che farò io povera donna? – disse Agnese, piangendo anch’essa.
– E io senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù in quel Milano…! Ma il Signore sarà con tutt’e due; e poi ci farà tornare insieme. Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora, e anche prima, spero, avrà accomodate le cose Lui, per riunirci. Lasciamo fare a Lui. La chiederò sempre sempre alla Madonna questa grazia. Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo farei; ma è tanto misericordiosa, che me l’otterrà per niente.
Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto, di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e promesse di non dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno, al più tardi; come se il mantenere dipendesse da loro, e come però si fa sempre in casi simili.
Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper nulla di Renzo. Né lettere né imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, a cui poté domandare, nessuno ne sapeva più di lei.
E non era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler prendere informazioni del povero giovine, aveva infatti scritto subito per averne. Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuto la risposta in cui gli si diceva che non s’era potuto trovar recapito dell’indicato soggetto; che veramente era stato qualche tempo in casa d’un suo parente, nel tal paese, dove non aveva fatto dir di sé; ma, una mattina, era scomparso all’improvviso, e quel suo parente stesso non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovine arrolato per il Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume: che non si mancherebbe di stare alle velette, se mai si potesse saper qualcosa di più positivo, per farne subito parte a sua signoria illustrissima e reverendissima.
Più tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d’Agnese. La povera donna faceva di tutto per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, anche al giorno d’oggi, basta da sé ad attestar tante cose. Talora, appena glien’era stata raccontata una, veniva uno e le diceva che non era vero nulla; ma per dargliene in cambio un’altra, ugualmente strana o sinistra. Tutte ciarle: ecco il fatto.
Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente di Venezia in Milano, perché un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e d’omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli riusciva nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella spiegazione che il caso avesse portato.
A Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l’inclinazione degli operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio bergamasco, e quindi di far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse a dir la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un altro filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto il nome d’Antonio Rivolta, al padrone, ch’era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente. Questo, quantunque l’annata fosse scarsa, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e abile, da un galantuomo che se n’intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine dovesse essere un po’ stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva.
Poco dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che prendesse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tal soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze, come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, la quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse al gran cancelliere che potrebbe trasmetterla a don Gonzalo Fernandez di Cordova.
Non mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perché quel giovine non c’era più, e dove fosse andato. Alla prima domanda Bortolo rispondeva: – ma! è scomparso -. Per mandar poi in pace i più insistenti, senza dar loro sospetto di quel che n’era davvero, aveva creduto bene di regalar loro, a chi l’una, a chi l’altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, come cose incerte, che aveva sentite dire anche lui, senza averne un riscontro positivo.
Ma quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale, senza nominarlo, e con un certo apparato d’importanza e di mistero, lasciando capire ch’era in nome d’un gran personaggio, tanto più Bortolo s’insospettì, e credé necessario di risponder secondo il solito; anzi, trattandosi d’un gran personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate a una a una, in quelle diverse occorrenze.
Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l’avesse proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse del poco rispetto usato, e delle cattive parole dette da colui al suo re moro incatenato per la gola, volesse fargliela pagare; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de’ fatti di Renzo; e se parve che se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.

CAPITOLO XXVII

Già più d’una volta c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n’avesse bisogno.
Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s’era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, ch’era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione e di divisione del Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l’acquisto di Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s’era voluto piegare.
Aveva anche lui amici d’importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa, ch’era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell’assedio della Roccella e in una guerra con l’Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de’ Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sull’esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti d’accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l’impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non l’aiutava a seconda de’ suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato l’aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po’ di rumore, che quel Carlo Emanuele, così attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati, come prode nell’armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L’assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell’impresa sia restato morto, smo