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Capitolo 2

Il sole del giorno incendiava gli asfalti e i muri, arrivava affilato ai suoi occhi: il giudice spiava il balcone dall’altro lato della piazza da una fessura dell’imposta. Le foglie non sarebbero seccate quell’anno al freddo, pensava astraendosi, il cielo e le colline dell’orizzonte non si sarebbero allagati di grigi, i campi non sarebbero sprofondati nel fango, la favola avrebbe mantenuto l’impassibilità. Però il balcone della ragazzina di fronte si stampava in un enigma su quella favola senza stagione.

– Perché non torna a letto? – invitava la donna alle sue spalle, mentre sdraiata sul letto si rassettava la gonna – Venga qui, vicino a me. – le sue gambe strusciavano con un gemito di calze di seta – A volte mi pare che abbia paura di me. –

– Paura? – come poteva avere paura d’una vedova che gli faceva le pulizie in casa, e sulla quale sfogava le voglie e le rabbie? Si voltava verso di lei, coglieva con lo sguardo il bianco della carne grassoccia che balenava nell’oscuro della gonna. – Calati il vestito, lì, sul petto. – digrignava, accostando le imposte.

Lei obbediva paziente come sempre, con un sorriso nelle labbra. All’uomo piacevano quei seni che erano rimasti l’ultima vita d’un corpo sfregiato dal tempo, e a lei piaceva mostrarglieli, come a un bambino. Eppure, nonostante la decadenza dell’età, gli uomini correvano ancora appresso alla donna, forse per quegli abiti neri che non aveva mai smesso dal funerale del marito, che accendevano i sensi di carne e di morte, oppure per lo stacco delle braccia candide, dei polpacci, per il protendersi delle labbra, e il rapido sviare dello sguardo quando camminava per strada.

Lui le si avvicinava, evitando di guardarla in viso: – Sta’ ferma. Resta così. –

La donna invece lo fissava con un lampo di seta degli occhi: – Anche a lui piacevano i miei seni. – alludeva a un forestiero che era stato il suo ultimo amante.

– A lui? – chiedeva l’altro.

– Però lui voleva toccarli subito, a lui s’annebbiava lo sguardo, quasi volesse piangere, mentre mi sedeva sulle sue ginocchia. – ne parlava quasi fosse morto come suo marito – Dio, diceva, Dio, nina, così mi chiamava, nina, dovrebbero costruire il mondo sopra i tuoi seni, tutto il mondo sopra i seni  delle donne, e sopra le loro gambe, e piagnucolava. Piangeva, sul serio. –

– Piangeva? – l’altro, ironico. Però ansimava come gli mancasse l’aria.

– Doveva baciarli e leccarli subito, i miei seni. Con una mano mi toccava, e con l’altra arraffava da mangiare dalla tavola. Era sempre affamato. – affondava il capo nel cuscino – Mangiava, e mi baciava il petto, senza lasciarmi, senza perdersi niente. Faceva gorgogliare il vino in gola, masticava rumorosamente; poi s’attaccava ai miei seni con le labbra ancora sporche, e la bocca piena. Nina, mi diceva con le labbra sul mio seno, così devono essere le donne, come un piatto caldo, e un vino che piglia la gola. Così deve essere il mondo, nina. La sua lingua passava e passava sul mio corpo, mentre piangeva, singhiozzava, s’affogava e tossiva. –

– Ti leccava il tuo seno come fosse il tondo della terra. – l’uomo, beffardo. – Parli sempre di lui. – inveiva. Però desiderava che continuasse, e se la donna non proseguiva era lui a tormentarla: – Il tuo uomo era un vagabondo e un servo. –

– Sì, un servo. Non aveva mai fatto altro che il servo. Uno come lui non poteva che servire. E aveva girato il mondo, servendo. Senza possedere altro che una casacca e un paio di pantaloni. – gli occhi le lampeggiavano un’altra volta.

– Un vagabondo, e un servo. E se n’è andato. – ancora con l’inflessione di scherno.

L’altra ammetteva: – Un vagabondo. E’ arrivato senza un soldo in tasca, con un lurido fagotto sottobraccio. S’è presa una vedova, come in ogni paese dov’è stato. M’ha lasciata, è vero, come m’ha lasciato mio marito morto. Il mio vestito non è più nero per questo, ormai non ci diventa più nero. – lei restava assorta, come in ascolto di suoni o parole solo per lei, come se i morti, e i vivi lontani parlassero alle sue orecchie.

– Tieni il lutto da sempre. Perché? – scavava lui.

– Ero giovane quando rimasi vedova. – si guardò i seni, li protese con le dita – I miei seni allora… I miei fianchi erano sottili come quelli d’un maschio, i polpacci forti; ero agile come una serpe, quando camminavo sulle vie del paese, e avevo veleno da schizzare in faccia agli uomini che non mi toglievano gli occhi di dosso. – La donna s’aggiustò il vestito e scese dal letto: – Non ne voglio parlare. Devo fare le pulizie, dottore. Sono qui per questo. Non ho molto tempo. –

– E’ il lutto di tuo marito, questo che porti? O quello degli altri tuoi uomini? Del tuo vagabondo? –

– Devo lavorare. –

– Certo, certo. – lui, desistendo, fingendo d’essere distratto. Però si volgeva ancora di sottecchi verso di lei che trafficava per casa. Si sedeva alla scrivania davanti al libro squinternato che aveva trovato fra i volumi di suo padre. Apriva di malavoglia una pagina a caso su una scrittura che mimava antiche miniature, ma guardava i tratti senza riconoscerli, senza decifrarli,  non leggeva. Non sollevava ugualmente il capo dallo scrittoio: – Perché non hai smesso il lutto e non ti sei risposata? Eri giovane, hai detto? –

L’altra non rispondeva. Sfaccendava per la stanza; il suo sudore si stemperava cupamente a una colonia di rosa, impregnava l’aria, avvolgeva il giudice. La donna s’accomodava sulla nuca una ciocca che, lavorando, continuava a penderle e tagliarle il viso con una pennellata, e si fermava, come fosse un’altra volta in un luogo proprio. D’un tratto mormorava in un soffio: – Io ci respiro, ci cammino, ci mangio, assieme ai miei morti, ci dormo nello stesso letto. Perciò non ho mai tolto gli abiti del lutto. –

Perez faceva una smorfia: – Mi sono coricato con una vedova e i suoi cadaveri. – masticava quasi fra sé.

Lei non parlava più, a volte s’incantava come le succedeva.

Ma l’altro ancora interrogava: – Il tuo primo marito, l’amavi? –

– Chissà. – si schermiva lei – Chissà se si capisce l’amore. Io lo volevo, e basta. M’attiravano quei suoi ricci scuri sulla fronte. Volevo annodarli alle dita come anelli. Ancora me li sento fra le dita. –

Perez apriva la bocca e subito la richiudeva sconfitto, di nuovo preda d’entità invisibili. Dalla scrivania sbirciava verso una fessura della finestra: intravedeva la figlia del dottore che faceva rapide apparizioni sul balcone. La ragazzina sostava indolente come una gatta, appoggiata alla ringhiera con il capo penzolante come i gelsomini a sera; ma, come quei fiori al mattino, si drizzava. Era presa da frenesie: usciva artigli di gatta per graffiare sul balcone, strappava le foglie d’un geranio con una crudeltà, si faceva vincere dal brillio di bracciali o collane da torturare. S’asciugava i capelli bagnati al sole, se li arruffava con una tovaglia, li scuoteva, ma immediatamente il calore, o un altro fastidio, la disturbavano e scappava nell’ombra di casa. Prima di sparire però per l’ennesima volta pareva sbirciare verso la finestra del giudice, arrotare gli artigli, o gonfiare la corolla di fiore, in un gioco e un pericolo.

La vedova s’appoggiava stanca al muro: – L’amavo? Ma poi non importa l’amore. –

Il giudice si distoglieva dalle fantasie, si volgeva verso la donna: in monastero l’amore era la dannazione.

– Io vado. Torno domani. – la vedova si dileguava.

Il giudice non le prestava più attenzione, assorto. Però quando la porta si richiudeva dietro la donna, il tonfo improvviso suscitava un vuoto che si risolveva nel solito punto doloroso dello stomaco. – Sono malato. – mormorava tra sé schernendosi, beandosi del suono delle proprie parole nel silenzio. Chiudeva di scatto il libro non letto e tornava alla finestra. Il pomeriggio avvampava la piazza deserta, si dilatava sui muri, fondendoli. Soltanto i voli degli uccelli macchiavano la luce: erano una macchia come il male e l’inferno, come il libro sulla scrivania, una scolatura formatasi da una trascuratezza Forse come recitavano i monaci esistevano una sola luce e una sola pulizia, senza lotte né divenire: – Una macchia, come i morti attaccati al corpo. – sussurrava senza volere.

Era meglio uscire, tornare in ufficio, cercare notizie della figlia di Sciarra, ricostruire il ritmo senza tempo del mondo: perciò per strada, si gettò nella confusione di fili di sole, spioventi dai tetti, nell’accecamento dal pomeriggio. I suoi passi echeggiavano sul selciato, come spari. Però era inutile attraversare la solitudine della vampa, come una barca nell’oceano, per cercare una ragazza che di sicuro a quell’ora era tornata normalmente a casa. Ecco la realtà, si prepara la festa come ogni anno, si rassicurava l’uomo nella mente guardando i festoni e le lampade della Madonna. Dall’altro capo del marciapiede lo scemo si rigirava nella giostra del sole, il capo verso l’alto e la lingua in fuori. C’era la festa, come ogni anno, ma l’Addolorata non avrebbe pianto per lo scemo nella processione, quell’anno, né mai, pensò.

In ufficio il segretario gli andò incontro stravolto: – Dottore. – faceva fatica a parlare, le parole lo soffocavano.

Il giudice lo degnò appena di un’occhiata.

– Hanno telefonato in questo momento. –

– Sì? – il giudice, senza interesse.

– Hanno trovato il corpo della figlia di Sciarra. In fondo alla scarpata. Vicino al torrente. Morta! Forse ammazzata. –

– Morta? Ammazzata? – s’accigliava Perez. Era impossibile in quel mondo. – Presto, l’auto! – doveva vedere, toccare di persona l’assurdo: un’agitazione lo prendeva.

Dentro la macchina il giudice smaniava: il bene e il male.

– Siamo arrivati. – diceva il segretario fermando l’auto – Da qui si deve proseguire nella scarpata a piedi. – indicava con il capo – C’è parecchia gente. –

Un poliziotto tentava di frenare la curiosità della folla. Qualcuno si sporgeva dalla staccionata del benzinaio per guardare; qualche ragazzo, felice di interrompere le noie, s’era addirittura appeso in bilico sul baratro.

– Signor pretore, è stato scoperto il cadavere un’ora fa. – diceva il poliziotto scostando la folla sempre più prepotente – Stia attento a scendere, è scosceso, e i sassi sono appuntiti come coltelli. –

Il giudice ghignò mentre si slanciava fra i cespugli e i massi. S’afferrava alle pietre taglienti, si feriva le mani: le labbra si piegavano in una maschera. – Non è possibile. –

Invece il cadavere della giovane era proprio lì vicino al greto, in mezzo a un cerchio di persone: ne usciva un braccio gonfio per la putrefazione, per terra da un cespuglio, oltre le gambe della gente. Il giudice s’abbrancò alle spalle degli uomini, si fece largo. La ragazza era stesa, nuda, con il collo segnato da tracce violacee, e la carne martoriata in diversi punti fino alle ossa. Soltanto a quella vista Perez si quietò: davanti all’evidenza, finalmente l’incredulità e l’eccitazione si mutarono in un’atonia, sinistra come quella del cadavere in decomposizione.

– I cani affamati, sono stati i cani randagi a sbranarla. – bisbigliava qualcuno in sordina – Ce ne sono tanti in questa zona, che bazzicano le baracche dei negri e dei lavoranti delle campagne. –

– Sì, i cani. – faceva eco un altro

– Oppure c’è il mostro in giro. – evocava il primo – Vi ricordate la bestia mezzo uomo e mezzo animale? – era il protagonista dei racconti dei vecchi. – C’è chi dice d’averlo visto veramente certe sere, un essere che abita tra i canaloni, e i canneti del torrente, e non si fa mai acciuffare. –

– Invenzioni per spaventare i bambini. – ma la piccola folla rabbrividiva, ondeggiava, si sparpagliava.

– Bisogna cercare la bestia! –

– Bisogna ucciderla! –

Il giudice sghignazzava, dondolava su un piede cercando una luce malaticcia che spioveva dal ciglio: il mostro, l’assurdo. Ma era già lì, in quel cadavere. Faceva un gesto ai poliziotti: – Fateli stare zitti, e allontanateli. – la verità era morta, putrefaceva con il cadavere sulla riva del torrente: occorreva silenzio per pensare.

Un poliziotto obbediva, tornava e si bloccava davanti alla morta: – E se fosse vero il discorso del mostro? – infatti non poteva che essere stato un mostro a ridurre così la ragazza.

– Vero che? – schiumava d’improvviso il giudice, svegliandosi dal torpore – Che il colpevole è una bestia, e non un uomo? – era vero che il male era fuori degli uomini, e non poteva toccarli, gli uomini, angeli? L’uomo roteava lo sguardo dentro le palpebre semichiuse – E’ stato un mostro. – era stata una creatura sovrannaturale e irreale a uccidere la giovane, era stata un’altra favola a distruggere la favola – Sicuro. Ma è stata veramente uccisa? – si domandava ancora dubitando, sbigottendo.

Un poliziotto grasso, che non era del paese, s’aggiustava la cintura dei pantaloni: – Si capisce. E’ evidente. – con voce beffarda.

Il giudice arrossiva: – Certo, l’hanno ammazzata. – il libro non letto s’apriva.

L’altro faceva un cenno: – Ha una traccia sul collo… Forse è stata strangolata. –

Il pretore s’inginocchiava accanto al cadavere: – Non c’è niente qui intorno che possa essere stato usato per soffocarla? Oppure l’assassino l’ha fatto con le mani. – l’uomo si smarriva: non c’era arma perché non c’era delitto. Le mani: l’assassino aveva usato le mani per fondere il bene e il male, per sentire direttamente tra le dita la vita e la morte.

– Forse è stato usato un fazzoletto, o un altro indumento. E poi l’hanno buttato, nascosto, o distrutto. –

– E i vestiti della ragazza? – ma la verità era per forza nuda, orridamente nuda, e morta, adesso.

– I vestiti? Non li abbiamo trovati. Scomparsi. – rispondeva il poliziotto.

Il giudice si torceva le mani: – Bisognerà cercare. Bisognerà cercare. – Alzava gli occhi al cielo oltre il bordo del dirupo: – Potrebbe essere invece un giorno come un altro. Uno stupido giorno come gli altri. –

Il poliziotto si chiudeva nelle spalle senza capire: – E’ stato avvertito il comando della città. Questo è un affare grosso. La ragazza è la figlia d’un uomo importante. L’hanno riconosciuta subito. Il padre sta venendo. – mentre scriveva su un blocchetto, indagava con lo sguardo l’altro lato del torrente, coperto di canneti, s’incantava nel mistero della gola dove s’incuneavano le tortuosità della corrente: la penna scricchiolava sulla pagina.

Il giudice seguì gli occhi dell’altro, scrutò pure lui, affascinato: i canneti vibravano come corde musicali, ondeggiavano come un mare per la brezza. Di rimando la gola emetteva suoni segreti, un’eco di gorgoglii d’acqua e tormenti di sassi, come il brontolio d’una bestia.

Il poliziotto insinuava: – Però qualcuno ha raccontato d’aver visto in questi giorni una bestia, o una persona, tra i canneti e le gole. Potrebbe esistere veramente quest’uomo, o animale che sia, di cui parlano, ed essere l’assassino. –

– Ma certo. Lei non è di questi posti. Eppure ne sa più di noi. – ringhiava sardonico l’altro. – L’ho detto: è comodo così. Tutto risolto: il bene e il male del mondo, uno di fronte all’altro, perfettamente riconoscibili e contrari. –

L’agente lo fissava interdetto: – Si sta organizzando una battuta. Se esiste quest’assassino, lo prenderemo. –

– Sì. – ancora il giudice. Diamo la caccia al male, pensava, staniamolo, ma senza capire, perché altrimenti tutto si complica, si fa pericoloso; non si deve pensare, non si deve sapere se è l’inizio o la fine. – Vengo pure io. – a dare la caccia all’idea. – L’acciufferemo, è vero, l’acciufferemo! –

L’altro smetteva d’annotare: – Le ho detto che non abbiamo trovato impronte di scarpe? –

– Il male non ha gambe né piedi, non ha essenza. – e il bene?

– Forse l’assassino ha seguito i sassi. Perciò niente impronte. –

– Non ha toccato terra. E’ passato sulle punte più apre e difficili. – il giudice si strofinava la mano sugli occhi. Basta, basta, ammoniva a se stesso.

– C’è il padre della ragazza. – diceva un agente.

Quello grasso si meravigliava, borbottava: – Guarda, è agile sul dirupo come se ne conoscesse tutte le pietre. –

Sciarra arrivò ansimando, accompagnato dai suoi uomini. S’avvicinò al corpo, lo fissò senza chinarsi: – Doveva finire così. – disse dopo un silenzio. Si voltò verso il poliziotto grasso e il giudice – Che avete intenzione di fare? –

Il poliziotto abbozzò una risposta: – Faremo una battuta nei paraggi. Il colpevole potrebbe essere  di fuori, e stare ancora nei dintorni. Se è qui lo acchiapperemo, non ci sfuggirà. –

Sciarra annuì lievemente con un moto né triste né convinto: – Fate il vostro dovere. Ma fate presto. Presto! – s’arrampicò lungo le pietre della scarpata verso la strada soprastante, prima che il giudice potesse parlargli.

Erano giunti altri poliziotti dalla città: – Avete sentito? Bisogna far presto. – Si organizzavano per la battuta anche volontari in cerca di novità ed emozioni.

Un giovane storceva la faccia: – Però bisognerebbe essere armati. – la bestia o l’uomo potevano essere pericolosi.

Un altro brandiva già un bastone: – Qualsiasi cosa ci sia, mostro o uomo, animale o persona, lo prenderemo! –

– Lo prendiamo! –

– Lo ammazziamo! – si eccitavano.

– Se lo merita. –

– Calma, calma. – il poliziotto grasso, spostando a stento l’addome – Non s’ammazza nessuno qui. –

– Prendiamolo! –

Il poliziotto grasso s’accostava a Perez: – Viene anche lei? Dobbiamo sbrigarci. Prima di sera. Hanno portato i cani dalla città. Faremo annusare loro il cadavere. L’omicida ne deve avere ancora l’odore addosso. –

L’odore del delitto, ghignava fra sé il giudice.

– Sì vi accompagno. –

– C’è da camminare e sporcarsi. –

– Vi accompagno. – voleva fiutare la morte come i cani.

Gli animali ai guinzagli già smaniavano, abbaiavano.

– Il canneto! Nel canneto! – si raggrupparono tutti insieme ai cani, saltarono su un cammino di pietre gettate sul torrente per attraversarlo.

– Dannazione, i pantaloni. Mi si sono bagnate le scarpe. –

– Tutti dietro i cani. –

Il poliziotto grasso si sbracciava: – Nessuna iniziativa, capito? – urlava alla confusione – Stiamo uniti finché ve lo dico io. – ordinava.

Entrarono tra le canne, impantanandosi in una fanghiglia sabbiosa.

– Maledette piante! Non si riesce neppure a camminare. – anche i cani avevano difficoltà a farsi strada.

– Colpa del torrente. – Nel canneto il vento dominava con la prepotenza d’un frastuono di foglie; il suo rumore assordava, e i moti dei pennacchi avvizziti, gli svolazzi d’uccelli disturbati non possedevano suono nel fragore, nello scoppiettio delle canne spostate dalle folate, diventavano immagini senza consistenza, immobilità senza rumore. – Per di qua. Per di qua. – anche il verso rauco dei cani era sopraffatto dal tuono delle piante. – Non ci fermiamo. – per non essere figure immobili senza suono.

Sbuffavano seguendo gli animali che tiravano, e annusavano: l’afa stagnava tra le foglie, stancava, scoppiava nel sudore degli uomini; il rombo delle canne stordiva.

Il giudice si fermò, s’asciugò con un fazzoletto.

Il poliziotto grasso gli s’accostò: – Sono contento… – parlava a stento per la fatica, e a voce alta per superare il rumore – che ci sia anche lei con noi. Non mi fido di questa gente, degli uomini del paese; sarebbero capaci sicuramente di linciare il primo che troviamo. –

Perez con il fiato mozzo s’era rannicchiato su se stesso: – Ognuno di loro ha famiglia, e non farebbe male a nessuno. – una smorfia pendeva dalle labbra – Però il puzzo del delitto… –

– Sono pure brave persone, ma insieme, in gruppo, lo sa che diventano? – replicava l’agente.

Il giudice tossiva: la folla era il mostro, la perdita d’individualità e coscienza era il mostro. L’uomo rabbrividiva: – Potremmo uccidere tutti. Insieme potremmo farlo. –

– Che ha detto? – gridava il poliziotto, accaldato – E’ stanco? Vuole restare qui ad aspettare? –

– No. – urlava il giudice alla magia dei canneti. Le piante scomponevano raggi sulle cime, sulle capigliature, li tagliavano riversandoli sulle ombre ondeggianti di foglie, di fusti al di sotto. Dimenavano il capo al vento, minacciosi. Il cielo s’allontanava nel mezzo d’intrecci, e sibili di rabbia. – Andiamo avanti. – anche il giudice era eccitato dalle luci, dal vento, dallo scomporsi e riapparire di cieli fra le canne.

L’altro, malvolentieri: – Andiamo. –

– Siamo già passati di qua. – gridava qualcuno.

– Stiamo girando in tondo. – s’accorgeva un altro.

– No. No. – l’abbaiare delle bestie aumentava nel fragore delle canne, si distingueva per un istante.

– C’è qualcosa. Qualcuno. –

– Sì, lo vedo. Vado io. – il poliziotto grasso, riottoso, preceduto dai cani – Ma no! Non è niente, uno straccio, forse una camicia d’uomo: chissà da quanto tempo è qui. –

– Chi ce l’ha gettata? –

– Magari l’ha portata il vento. – rispondeva il poliziotto con il respiro rotto – Riprendiamo. Ve lo ripeto: chi vuole tornare a casa se ne vada. – sventolava lo straccio in alto per farsi vedere.

Ma tutti volevano frugare, presi da una furia: – Continuiamo. –

Riprendevano nel fragore del canneto. Il giudice ansimava dietro gli altri, frastornato dalla stessa ansia, fra il crepitare delle canne, le urla, i cieli e gli uccelli, scoperti in un gesto tra intrecci di piante. – Forse siamo noi stessi… – mormorava senza senno – siamo noi stessi, cacciatori, a essere nascosti in queste dannate canne. Ci ritroveremo? Che faccia avremo, allora? – Forse erano tutti fra questi uccelli che non avevano volo e cielo, tra quelle piante che urlavano per confondere, e pure non avevano voce. – L’uomo si rigirava: – Ci troveremo? E saremo un tradimento per noi stessi. –

Erano usciti in uno spiazzo sassoso. Si bloccarono, i volti accesi, il respiro rumoroso: – Non c’è nessuno. –

Scoprivano di non esistere, pensava Perez. Qualcuno se la prendeva con i cespugli menando colpi di bastone.

– Che v’aspettavate? – uno dei poliziotti del paese – Di trovare chi v’ha messo paura quand’eravate bambini? – sghignazzava.

Volevate vendicarvi di quelle paure, diventare grandi? correggeva fra sé il giudice, curvo per la fatica, fermandosi anche lui.

– Una fantasia. Tutte fantasie. – ammettevano gli uomini, però non riuscivano a scordare i racconti della creatura né bestia né uomo.

Qualcuno, seduto su una pietra, si rivolgeva al giudice: – Ne ha sentito parlare anche lei? Storie di vecchi. –

Perez era piegato per lo sforzo, riusciva appena a respirare: – Non mi ricordo. –

Ne avevano ascoltato tutti, di quei racconti, certe sere d’inverno, da bambini, tra le ombre dei bracieri proiettate come fantasmi sulla parete, e poi nei corridoi bui della casa avevano corso a perdifiato per scappare alle paure.

– Un mostro. – rimuginava Perez, un mostro come il pensiero, o peggio come la realtà: il mostro era una vita che non si riusciva a sopprimere perché era uomo, e non si ingannava e domava perché era bestia. Il volto del giudice si deformava. – C’è un assassino nei canneti. – affezionato al proprio delitto. Anzi c’era il delitto, piuttosto che il suo colpevole.

– Se c’è il farabutto… – minacciava un vecchio con un fucile: tirare agli uomini o alle quaglie era lo stesso, purché si centrassero.

– Chi v’ha detto di portare armi? – sbraitava il poliziotto grasso.

– Comunque è ancora qua vicino l’assassino. – Perez accennava con il capo: il mostro, o l’abitante dei canneti erano diversi dagli uomini, erano per forza assassini. – Bisogna cancellarlo. – con una piega del labbro.

– Ci crede? – il poliziotto grasso si scrollava il fango dall’orlo dei pantaloni – Per fortuna fra poco tramonta e smettiamo. – masticò tra i denti.

Il giudice lanciò un’occhiata: – C’è ancora tempo. – il pomeriggio per dispetto non terminava, anzi scoppiava in un lampo di fuoco tra di loro, sullo spiazzo dove s’erano fermati.

– Controlliamo da quella parte: i cani sentono un odore. – gridava uno, caparbio. Bestemmiavano, proseguivano le ricerche nei canneti. Il sole incendiava in punta alle canne, anziché cedere al tramonto. – I cani. I cani. – s’illudevano, urlando nel tuono delle piante scompigliate. Dentro di loro l’ansia s’amplificava in una malvagità che non voleva cedere.

– Forse ci siamo. Lo prendiamo! – una voce in mezzo al fogliame.

– Sì. –

Ma la delusione delirava, incattiviva: – Maledizione! No! Giriamo senza conclusione. Maledetti cani! Maledetta boscaglia di canne! – Boccheggiavano per la stanchezza, ansavano senza vedersi, in un’eco che si ripercuoteva in mezzo alle piante: la macchia s’animava così di propri polmoni, di stantuffi malati. Si ritrovarono ancora attoniti nello spiazzo; anche i cani adesso sbavavano affranti. Si fissarono nei visi cianotici: – Che facciamo? – s’interrogavano, scordando come fosse cominciato il furore. Il sole s’era spostato finalmente, inclinandosi; i suoi raggi s’erano impalliditi svaporando dopo l’ultima fiammata. Il canneto ingrigiva ora come un fango, una trappola.

– Tramonta. – sospirava il poliziotto grasso. Un’aria  insipida scivolava sui volti ch’erano stati arrossati dalla vampa fatale del pomeriggio e dalla fatica, addormentava il sudore, e la furia, offuscava gli occhi degli uomini, squagliava le foglie, e i sassi della radura, senza riverberi.

“Com’è principiato? Perché? Che volevamo?” si chiedeva abbandonandosi Perez, smarrendosi con gli altri in quella luce spenta. Il vento era cessato di colpo, e nel silenzio le nottole s’erano buttate a velocità contro il cielo incolore bucandolo, avvolgendosi in un groviglio irreale con le cime di piante, e i brani vaganti di tenebra. Gli uomini soffocavano respirando a stento, sollevavano le teste all’intreccio d’uccelli notturni, s’annodavano ai loro voli, s’incatenavano allo scialbore del tramonto. La caccia era finita.

L’uomo con il fucile sparò per disperazione in aria: il colpo si attutì fra le piante, rimbombò nella gola del torrente, suscitò le strida delle nottole.

– Ma che fa? – rimproverò il poliziotto grasso. Si sbottonò la camicia sul collo, strattonò il cane che guaì debolmente: – Ritorniamo, Cristo! Riprendiamo domattina. –

Non s’erano accorti d’aver percorso tanta strada, mentre sbuffavano, al ritorno.

– Nessun mostro stasera. – derideva Perez, ma anche lui covava una rabbia nello stomaco, che cresceva mentre tornava. Perciò s’attardò, s’irrigidì per un momento in un riparo di canne, per coltivarsi il sentimento nel petto, sentirsi vivere. Il vento s’era ammutolito, i cani non fiatavano stanchi, il fruscio degli uomini si dileguava allontanandosi. Le labbra si allargarono in una sorta di sorriso.

Sbucò dopo gli altri sul torrente, distante dal luogo del delitto, dove s’ergevano i costoni di roccia, che rinchiudevano il letto d’acqua ai lati. La gola rintronava di gorgoglii, di frullii d’ali. Mentre s’apprestava a saltare sul guado di pietre un’ombra gli passò sullo sguardo. Sussultò, scrutando, ma l’ombra svanì tra i contorni di rocce. – Un mostro. – sussurrò, liberando ancora lo strano sorriso – Domani, domani sarai mio. – promise, ripigliando la strada.

Dall’altro lato del fiumiciattolo c’era ancora gente, i poliziotti riposavano vicino ai loro cani accovacciati per terra. Il corpo della ragazza era stato trasportato via. L’agente grasso era sprofondato, livido, in un sedile di roccia, asciugandosi la faccia: – Domani cercheremo ancora, dottore. Ma non voglio nessuno del paese tra i piedi. –

Perez annuì guardando il letto di sasso della ragazza morta, ormai vuoto, pietre e cespugli su cui era piombata l’ombra del dirupo. Forse la ragazza vi s’era adagiata per una libertà, per una verità, e il torrente l’aveva cullata in un gorgheggio d’acqua, ma il suo mostro sapeva di più. – Domani. –

– Andiamo via, dottore? – il segretario era sceso fin là.

Anche lo scemo s’era avventurato sotto l’erta. S’era accoccolato con i piedi scalzi nell’acqua gelida, inturgidita dalla luce del tramonto, brillante come un’acciarino: – Morta… – bofonchiava per convincersi, mimava con le mani un uccello.

Il segretario faceva un cenno d’intesa al pretore: – Non sa neppure che dice, che cos’è morire. –

Il giudice non replicava. Ma che sapevano tutti?

– Sono scesi… – balbettava ancora lo scemo – i colombi. –

Il giudice si voltò verso di lui: lo scemo aveva la faccia frantumata in pieghe, quasi avesse capito la morte oltre la  stupidità, mentre le mani si piegavano innaturalmente sui polsi cambiandosi da uccelli a moncherini. – Che dici? – sbraitò il giudice.

– Io… li ho visti scendere di notte sbattendo le ali… i colombi. –

– Chi? –

– La ragazza ho visto, e gli altri. Non toccavano terra. –

– Ma che dici? Chi erano? Che hai visto? –

– Uccelli, colombi, svegliati di notte. –

– Che vuoi dire? – il giudice afferrava l’altro, e lo scuoteva.

Lo scemo però non parlava più, gemeva piuttosto, spaventato, tra le mani dell’uomo.

Perez si convinse a lasciarlo: – E’ un povero scemo. – non esisteva, come quel cadavere sul torrente. L’altro fuggì subito, verso il ciglio della strada dove i randagi lo aspettavano, aggirandosi nella sera, lamentandosi. – Quei cani, i cani che gli vengono sempre dietro… – rammentò il giudice, in un mormorio. Alzò gli occhi verso la via: il pelo malato delle bestie brillava sulle schiene smagrite. Chissà se il muso di quei cani s’era intriso di sangue umano.